Che cos’è l’eleganza.

Hic Sunt Group, Senza titolo, 2007

L’eleganza è quella modalità della bellezza che ne sottolinea il nesso sociale e la creatività funzionale. Se la bellezza è l’adeguatezza della forma al contenuto, occorre individuare in che modo l’eleganza è coordinata al fine della cosa o del comportamento di cui essa è la qualità.

Per esempio, ed è un esempio apparentemente astruso, ma non errato, ci può essere eleganza nel modo di risolvere un’equazione; oppure, ed è invece l’occorrenza più ovvia, ci può essere eleganza nel modo di vestirsi e quindi di apparire. Nel caso dell’equazione, l’eleganza inserisce una componente inventiva in un campo, la matematica, che sembrerebbe rigorosamente chiuso alla scelta di soluzioni fantasiose. La soluzione elegante sarebbe quella che, coniugando invenzione e rigore appare alla fine sorprendentemente adeguata. Nel caso del vestito, al contrario, l’eleganza sta nel trovare una misura e il senso di quella misura di fronte alla libertà creativa.

In entrambi i casi comunque l’eleganza attiene più al portamento e al comportamento che all’oggettività. Perciò quando si riferisce agli oggetti, essa è visibile in una forma statica; quando si riferisce alle persone, emerge invece la sua peculiarità specifica, che è propria dell’agire.

L’eleganza come bellezza del portamento trova la sua autonomia estetica nella danza. La danza infatti non è altro che una stilizzazione ritmica dei movimenti della vita ordinaria elevati ad arte. Ma oltre la danza come arte pura, classica o moderna, il ballo in cui tutti possiamo divertirci è a sua volta un’arte applicata, e precisamente applicata alla socialità dell’incontro tra i sessi. In danze come il minuetto la stilizzazione mimetica privilegiava la grazia, in balli più recenti come il tango, il rock o la lambada l’imitazione stilizzata del rapporto sessuale è più evidente, ma perciò stesso l’eleganza è più necessaria ad evitare la volgarità.

Tra comportamento e oggettività è perciò naturale che l’eleganza sia di solito riferita al modo di vestirsi, perché in esso la scelta dell’oggetto abito si unisce al suo scopo stesso che è il modo di portarlo. L’eleganza della persona è quindi di solito la bellezza del modo di comportarsi avendo addosso dei vestiti. Questo perché un gestire elegante evidenzia la bella forma del vestito, e la bella forma del vestito favorisce la visibilità del portamento elegante.

Ma l’esecuzione elegante di qualsiasi atto può prescindere dall’abito e riguardare sia il gestire stesso, sia un modo elegante di risolvere una questione, e quindi attenere alla sfera professionale e ideativa, come nel caso dell’equazione o, come vedremo, addirittura alla sfera etica ed esistenziale.

Rimanendo all’eleganza fisica e tornando all’abito che si addice al portamento, in questa unione convergono due finalità di per sé indipendenti, perché la finalità dell’abito sta nell’adeguarsi al corpo, ma questo adeguamento deve riguardare anche l’attività in cui il corpo è impegnato in una determinata situazione. Quindi l’eleganza non riguarda solo il rapporto tra corpo e abito, ma anche il rapporto tra corpo, abito e attività in cui, nel tempo, e diciamo pure nella Storia, è momentaneamente impegnato il corpo.

Ci si veste diversamente in casa e al lavoro, e al lavoro in modo diverso se si è un operaio o un presidente del consiglio d’amministrazione. Ci si veste diversamente ad un incontro fra amici o ad una cerimonia, al mattino o alla sera,  d’inverno o d’estate, in Lapponia o in Africa, nel Seicento alla corte di Spagna o nel Novecento in un senato accademico.

C’è infatti chi, a parer mio sbagliando, ritiene per esempio che nel secolo del barocco le persone fossero più eleganti che nell’epoca borghese, non rendendosi conto che, come diceva Leopardi: “La bellezza è convenienza”. Perciò l’abito elegante è quello che si conviene al tempo, al luogo, alla funzione. Immaginiamo un tranviere che, per essere più elegante, guidi il suo tram vestito come un generale di Carlo V.

Tra l’altro una delle principali cause del mutare della moda e dei criteri di eleganza è l’evoluzione storica delle tecnologie di guerra. Un tempo la divisa del soldato in azione doveva essere molto visibile e addirittura impressionante, e le truppe si schieravano, letteralmente, cioè si disponevano in schiere. Oggi al contrario la divisa da battaglia deve essere mimetica e invisibile.

Questo nesso tra guerra e abito è ricordato anche dal fatto che il nome della cravatta, deriva dalla sciarpa che faceva parte della divisa dei soldati croati, non so esattamente fino a che epoca. Nel conformismo borghese ad ogni modo la cravatta era l’ultimo residuo della libertà estetica, per quanto misurata. Oggi invece all’opposto, può apparire un residuo di ostentata superiorità di classe. Tuttavia saper portare la cravatta non è mai stata una cosa semplice, appunto perché la cravatta era ed è una prova di gusto e di educazione. Le cravatte sbagliate sono innumerevoli. Perciò chi non è sicuro del proprio gusto spesso preferisce eliminarla, o portarne una standard, uguale in tutte le occasioni. Nel qual caso è come non averla.

Oltre alla guerra il fattore più importante per l’evoluzione dei criteri di eleganza è il lavoro. L’industrializzazione ha inciso sui costumi, introducendo nei canoni dell’eleganza l’economia dei mezzi rispetto allo spreco, la sobrietà rispetto all’eccesso, un apparente conformismo rispetto all’ostentata eccentricità. Ma cogliere la diversità nell’apparente conformismo richiede più attenzione alle sfumature e ai dettagli. Storicamente la sobrietà è imposta dall’industrializzazione ed è un tratto borghese di cultura protestante. Essa succede all’esibizionismo e allo sfarzo di corte, aristocratico e cattolico.

Ad ogni modo la madre dell’eleganza è l’educazione, perché la disinvoltura, cioè il comportamento “naturale” dello stare in società, non si apprende in un giorno, bensì per via indiretta, quasi per osmosi. Occorre anche dire che l’educazione di oggi avviene in minima parte in famiglia e nella scuola, e in massima parte attraverso i media e nelle discoteche frequentate dalle tribù giovanilistiche.

Il Pigmalione di George Bernard Shaw, da cui è tratto il film My Fair Lady, era ottimista riguardo alla possibilità di educare, ed era ovviamente riduttivo, perché riduceva l’educazione ad un fatto di linguaggio e di accento, la famosa “received pronounciation”. Ma anche così ridotta l’educazione non si impara in poco tempo. Non a caso la protagonista del film è Audry Hepburn, una figura intrinsecamente elegante, che infatti agli occhi dello spettatore appariva fuori  ruolo nei panni della fioraia incolta e sgraziata, e diventava semplicemente se stessa, cioè Audry Hepburn, dopo il trattamento educativo.

Il concetto stesso di eleganza scaturisce dalla dimensione sociale e quindi culturale, e il discrimine fra eleganza e rozzezza deriva proprio da questa doppia natura. Gli animali non hanno questi problemi, pur vivendo talvolta in gruppi. A dire il vero quando si parla di animali partiamo sempre dal pregiudizio della loro incolmabile diversità dagli esseri umani, mentre poi talvolta scopriamo che hanno dei comportamenti sociali e sentimentali non lontani dai nostri. Non avendo cultura, gli animali dovrebbero essere tutti eleganti per natura, in quanto i loro comportamenti sono puramente dettati dalla funzionalità ai bisogni, e dunque sempre adeguati ai fini.

Un tratto fisico come la diversità del colore della pelle è soltanto l’effetto di un adeguamento dell’epidermide all’incidenza della luce solare nelle varie zone della terra, ma diventa un indizio di differenza razziale, e poi di discriminazione razzista, per motivi storici. L’abbronzatura fino agli anni ’20 del secolo scorso non era elegante, perché era il denotato di chi lavorava all’aperto, come i contadini, o gli stradini, mentre i borghesi, all’aperto sotto il sole, si riparavano con gli ombrellini. Poi con la moda dei bagni di mare l’abbronzatura divenne ricercata anche come requisito di eleganza. Questo nonostante si sappia che abbronzarsi fa invecchiare prima la pelle.

Nel presente invece, nella società di massa, conformismo ed esibizionismo si uniscono nell’ostentazione della marca del produttore ben visibile ovunque sui vestiti, e sostituisce il taglio e la forma dell’abito come segno riconoscibile di eleganza. Del resto il termine divisa significa motto, cioè era una frase, e precisamente il motto del sovrano che i soldati portavano scritto sull’abito o sul cappello. Ora invece si porta scritto addosso il nome della ditta, e si fa pubblicità gratis al produttore, che è il nuovo principe dei nostri costumi.

La citazione di Audry Hepburn si presta anche ad un’altra esemplificazione, che può fungere da tramite col discorso sull’eleganza morale. Chi ricorda certe fotografie di Audry Hepburn in vacanza, in pantaloni grigi molto sobri, si rende conto che negli anni ‘50 i pantaloni avevano delle pince che facevano sì che la stoffa si tenesse leggermente ampia sui fianchi, perché allora far vedere le curve delle natiche sotto la stoffa era considerato volgare. Una cosa era il bikini una cosa diversa era il vestito per passeggiare in città. Oggi ovviamente i tempi sono diversi e chi porta i pantaloni si deve adeguare al fatto che l’esibizionismo delle parti sessuali viene considerato una virtù e non un difetto. Nella società dello spettacolo la spudoratezza soppianta il fascino della modestia, allarga le scollature, rende visibili gli ombelichi. La deriva pornografica dell’episteme contemporanea attira l’attenzione sulle prominenze mammarie e sull’espressività motoria dei glutei.

L’eleganza del nostro tempo sembra quindi orientarsi verso questi nuovi valori, che definirei “proto-prostitutivi”, consacrati dalla felice invenzione del termine mignottocrazia del senatore Guzzanti. In questo caso la cafoneria dell’epoca prevale sul gusto delle singole persone, e infatti alcune amiche mi hanno fatto presente che è quasi impossibile per loro trovare pantaloni più ampi e con la vita normale invece che con la vita bassa.

C’è infine un’eleganza morale specifica, che consiste nel gestire elegantemente le scelte etiche. Per esempio il cafone etico è quello che rispetta i suoi pari o i superiori, ma maltratta i sottoposti, laddove l’eleganza morale consiste nel rispettare tutti, ma soprattutto gli inferiori.

Da questa rassegna di casi pratici dobbiamo però trarre una nozione di eleganza astratta che potremmo definire la capacità di gestire con disinvoltura e magnanimità di tratto tutti i rapporti con le persone, con gli animali e con le cose. In questa gestione emerge il fatto che l’eleganza è sostanzialmente un fatto mondano, sia perché relativo alle “persone di mondo”, o che “sanno stare al mondo”, sia nel senso che sanno mantenere i rapporti con atteggiamenti non drammatici, bensì con una grazia che confina con la lievità o addirittura con la superficialità. In questa impressione, leggerezza e superficialità vanno però intese in senso positivo, perché l’eleganza implica proprio un atteggiamento di fondo ottimista verso la vita e le cose del mondo.

L’eleganza è perciò presente più facilmente nei personaggi e nelle azioni della commedia che nella tragedia. Non a caso in Inghilterra nel Settecento abbiamo la comedy of manners dove manners in sostanza vuol dire educazione delle maniere e dunque “buone maniere”, anche se si dà una visione cinica dell’alta società del tempo. Questo ci fa capire che il cinismo è un’eleganza inacidita e andata a male.

L’eleganza è invece assente nella tragedia. Quando infatti si affronta una situazione seria o addirittura tragica, l’eleganza perde il suo senso, perciò il germe dell’eleganza affronta e trasforma il tragico in un atteggiamento stoico. Allora l’eleganza consiste nella capacità di non soccombere alla catastrofe, ma di sopportarla con quella sprezzatura che dimostra che la patina di ottimismo positivo e mondano non è superficialità, ma al contrario che forma e misura sono una forza vitale.

Da ultimo una mia paziente, a cui ho fatto leggere queste considerazioni, mi chiedeva come si conciliasse la sua eleganza, ottimista secondo la mia teoria, con la sua personale visione molto pessimista della vita. In primo luogo ciò si può far rientrare nella soluzione che ho definito “stoica” dell’eleganza. Ma nel caso specifico della situazione terapeutica l’eleganza è un sintomo, che mi rammenta lo scritto di Freud “Inibizione, sintomo e angoscia”.

In tal caso questo titolo si potrebbe trasformare in “Eleganza, sintomo e gioia”, e la funzione sostitutiva dell’eleganza come sintomo di una rimozione può essere capovolta in una sublimazione della rimozione stessa. Diventa così una cura della pulsione di morte, dove l’eleganza, proprio per la natura mondana della sua interazione, riavvia, dal margine invece che dal centro, la scansione del programma primario della vita. Sintomo, sostituto e soddisfazione fanno affiorare la pulsione di morte e sciolgono l’inibizione ad essere felici, mostrando e rielaborando una visione elegante di ciò che prima era angoscioso.

Detto fuori dai termini tecnici, l’eleganza sarebbe il segnale positivo che il danno psichico può essere affrontato a partire da un risanamento superficiale, apparentemente epidermico e di facciata, appunto perché l’angoscia affiora mondanamente e si trasforma. Nell’entità umana dentro e fuori, epidermide e coscienza, parola terapeutica ed esperienza, essere e rappresentazione, e quindi eleganza mondana e riparazione radicale del trauma, si fondono in una sorta di prolificazione staminale ricostituiva. È la scoperta di un’estetica della biopolitica, o semplicemente la terapia della bellezza.

Leonardo Terzo