Leonardo Terzo, City Life, 2008
Pubblicato per la prima volta nel Catalogo della mostra “Viaggio al termine del paesaggio”, Pavia, S.M. Gualtieri, 11-26 settembre 2007
Il concetto di paesaggio è l’effetto di un’osservazione panoramica della realtà dal punto di vista umano. Lo stesso paesaggio naturale è tale solo quando la natura si costituisce finalisticamente in oggetto e l’uomo in soggetto.
Il paesaggio ha quindi una sua funzione in termini di asperità, limitante o protettiva, o viceversa di agibilità demografica, e le sue caratteristiche naturali sono osservate nella prospettiva di trasformazioni agrarie, abitative, economiche. Su di esse si innesta infine un’intenzionalità estetica, che privilegia la fruibilità contemplativa. Ma l’uso estetico è a sua volta peculiarmente significativo proprio per le ragioni che intendono il paesaggio come ambiente di vita reale.
Nel paesaggio urbano il livello della progettualità tecnica si esprime infatti, prima che nella raffigurazione pittorica, nella realtà intrinseca della città che, al di là della pura funzionalità residenziale e pratica, ha sempre anche una dimensione ostensiva e comunicativa. La grande città si sviluppa dal mercato all’incrocio delle vie di comunicazione, ma una volta soddisfatte le esigenze di interazione commerciale, emana una dimensione civile e politica che, tra le proprie manifestazioni simboliche, vede ad esempio le torri storiche e ora i grattacieli. L’effetto politico degli attentati alle Twin Towers è rimbombato in modo stupefacente nel mondo anche per la carica intrinsecamente simbolica degli edifici crollati, in relazione alla potenza mondiale degli Stati Uniti. E il cordoglio per le vittime ha trovato immediatamente il suo correlativo oggettivo in una modificazione visiva, e precisamente quella della linea detta skyline, che è il profilo della città che si staglia contro il cielo.
Nell’era della comunicazione lo skyline delle città è diventato una sorta di logo identitario o grafema di riconoscibilità, da Sidney a Kuala Lampur, da Chicago a Hong Kong, da Dubai a Francoforte. Esso è la versione moderna del tradizionale panorama da cartolina, e anche in una città come Parigi, che in questo senso ha precorso i tempi con la Tour Eiffel, il vecchio manufatto celebrativo del progresso industriale ottocentesco non è più abbastanza moderno, perciò è integrato dal nuovo skyline della Dèfense o dall’inverecondia postmoderna del Beaubourg. Così le città esibiscono la loro competitività economica e politica sulla scena del metropolismo globalizzato trasformandosi, per esigenze di spettacolo, da luogo a logo.
Secondo Kenneth Clark, nella sua opera fondamentale sull’argomento: Landscape into Art (1949), la pittura di paesaggio ha quattro principali motivazioni: un uso simbolico degli aspetti della natura per significare determinate idee; la curiosità per i fatti e gli aspetti della natura stessa, ed è la visione degli esploratori, dei naturalisti, dei viaggiatori; una trasfigurazione della natura per affrontare e dissipare la paura di essa, come nel sublime settecentesco e poi nel sublime romantico; e infine il desiderio di fantasticare su ideali di ordine e armonia, come nelle utopie pastorali dell’Arcadia e dell’Età dell’Oro. Un aggiornamento di questo ideale di ordine e armonia può considerarsi persino il funzionalismo del Bauhaus poi divenuto stile internazionale.
Come si sa il paesaggio come soggetto autonomo della rappresentazione pittorica emerge pienamente nel diciassettesimo secolo, tra la fine del Rinascimento e l’Età Barocca, ma ha una lunga gestazione. Prenderò come esempio alcuni dei miei pittori preferiti. Già La Tempesta del Giorgione (1477-1510), databile tra il 1506 e il 1508, nella dislocazione dei suoi elementi pone ai margini laterali gli esseri umani, identificati da Salvatore Settis come Adamo ed Eva dopo la cacciata dal Paradiso. Al centro abbiamo invece uno scalare di piani di un paesaggio, prima naturale e poi urbano, colto nell’istante in cui viene illuminato dal fulmine, che rappresenta l’ira divina. Dopo la prima impressione ci si accorge che gran parte del fascino di questo celebrato dipinto sta proprio nel fatto che dal primo piano delle immagini laterali ci si inoltra sempre più profondamente verso il centro, che nello stesso tempo è sfondo e oggetto della rappresentazione. Ci si accorge che ciò che è laterale e in primo piano è cronologicamente l’origine (la cacciata dall’Eden), dell’edificazione della città dell’uomo, che è lontana nel futuro oltre il piano intermedio della natura. Questa prospettiva, che è pienamente realistica, diventa così allo stesso tempo distribuzione allegorica del tempo umano della Storia.
Un altro precursore, Peter Brueghel il vecchio (1525-69), nel quadro che rappresenta La mietitura, del 1565, mostra una natura generosa e ricca, resa feconda e figurativamente esaltante dal lavoro umano. Qui non abbiamo la città: pochi edifici si intravedono sul fondo da un lato; abbiamo invece un campo di grano e alcuni lavoratori che ancora mietono, mentre altri si riposano e pranzano o dormono all’ombra protettiva di un grande albero. Ma non vi è rappresentazione più forte e meno arcadica di questa dell’integrazione fra natura, tecnica e umanità.
Anche l’inglese William Turner (1775-1851), sebbene operante nell’800, è un precursore, perché il trattamento a cui sottopone le sue visioni, sia del paesaggio naturale sia di quello urbano, anticipa romanticamente la poetica dell’informale. Nelle sue opere lo spazio, agitato da grandi forze cosmiche, travolge e distrugge i suoi contenuti, in una trasfigurazione aggressiva che si perde nell’infinito e attinge al sublime.
Anche nel paesaggio più tradizionale e naturale infatti la forma dello spazio ha nella luce e nel tempo, atmosferico e cronologico, i fattori principali di invenzione e trasfigurazione. Oltre il cielo, il mare, la pianura e le montagne, elementi fondamentali sono infatti le stagioni, le fasi del giorno, le tracce e i segni della presenza umana, per quanto minuscolo appaia l’uomo nella vastità della natura.
Nel paesaggio urbano spazio e luce vengono invece più evidentemente culturalizzati e proiettati in oggetti e su oggetti che significano sia le forme percepibili, sia gli stati d’animo dell’osservatore, ma soprattutto una stazione nell’itinerario del progresso. Il paesaggio urbano è un autoritratto della civiltà tecnica, e attraverso di esso l’occhio umano riconosce, considera e apprezza la creatività e lo stato della sua cultura materiale. È dunque il modo e il luogo dove l’oggetto etnografico evidenzia la sua componente estetica, e dove viceversa questa componente si fa a sua volta segno di distinzione sociale e forma distinta di civiltà.
Perciò la pittura olandese di paesaggio urbano del ‘600, pensiamo per esempio al quadro di Vermeer con la famosa veduta della sua città natale Delft, viene di solito connessa all’orgoglio celebrativo della ricca borghesia locale dell’epoca. E in effetti l’architettura è l’arte applicata che non può fare a meno di intrattenere rapporti diretti o indiretti col potere istituzionale ed economico. Perciò stesso essa è ottimistica per dovere, essendo edificazione, e tanto più prediletta dal potere quanto più tale potere tende all’assolutismo. Ne sia esempio in Italia l’aspirazione recente alla grande opera, prima sventata e ora di nuovo minacciata, del Ponte sullo stretto di Messina.