Navigare in rete e la filosofia del viaggio

Leonardo Terzo, China Dream, 2002

1. Viaggio e narrazione
La filosofia del viaggio si articola sul significato di tre nodi spazio-temporali: la partenza, il transito, l’arrivo che, animati da motivazioni, intenzioni e fini, si collocano in un quadro di configurazioni cosmologiche distribuite tra due emisferi: quello edenico del romance e quello infero dell’ironia e della satira.

Nei vari mondi a cui queste configurazioni pongono capo il viaggiatore si è costituito di volta in volta in una figura adeguata all’ambiente; ambiente che può essere mitico, leggendario, eroico, o realistico. Il viaggiatore diventa così argonauta, messaggero, esule, cavaliere errante, missionario, picaro, pellegrino, chierico vagante, navigatore, corsaro, esploratore, pioniere, emigrante, crocerista, turista, commesso viaggiatore, corridore sportivo, pendolare, astronauta. Ed ora che il mondo è quello cablato dalla rete telematica, diventa quindi navigatore in internet.

L’estensione del viaggio può raggiungere valenze anagogiche e comportare l’attraversamento di mondi molteplici, come nella Divina commedia, o può ridursi realisticamente alla passeggiata quotidiana del borghese Immanuel Kant; può effettivamente portare l’uomo sulla luna o limitarsi al viaggio immaginario attorno alla propria stanza di François-Xavier de Maistre. Può essere la quotidiana fatica del pendolare alle prese con i ritardi ferroviari, o divenire il microcosmico Viaggio allucinante (Richard Fleischer, Fantastic Voyage, 1966) del film omonimo all’interno del corpo umano, che esemplifica narrativamente le esplorazioni della scienza medica. Non a caso il corpo stesso è stato definito da Herbert Spencer un sistema viario: nulla di strano quindi che il viaggio possa diramarsi anche come esplorazione del corpo sessuale da parte della curiosità pornografica.

Questo ci ricorda che la curiosità è il sentimento più comune alla base delle motivazioni del viaggio, e che tra viaggio ed esibizione esiste una connessione profonda, spesso dimenticata. Il teatro per esempio ha un’origine rituale come processione, che permane sotto varie forme, dalle turnées delle compagnie di giro alle sfilate di moda, dalla via crucis ai cortei regali, dai cortei funebri ai carri allegorici del carnevale.

In effetti, la possibilità di allegoricizzare il viaggio può renderlo veicolo di sensi molteplici e in primo luogo della vita stessa come periglioso attraversamento di una valle di lacrime, dal medievale The Pilgrim’s Progress di Bunyan alla sua parodia ferroviaria in “The Celestial Railroad” di Hawthorne. Il viaggio infatti si presta all’allegoria di ogni forma del divenire, proiettando in termini spaziali il mutare nel tempo, fino a unificare queste due dimensioni nella fantascienza. Così la mobilità rappresenta la mutabilità; che si può paventare come corsa verso la vecchiaia, l’emarginazione e la morte, o invece auspicare, quando lo spostamento geografico è indice di mobilità sociale, come nel genere picaresco, o quando il tempo è redentore, come nella commedia.

Si deve comunque notare che nella cultura ebraico-cristiana l’archetipo del viaggio è l’esilio; è la cacciata dal Paradiso Terrestre, che dal punto di vista laico è l’uscita dall’inconsapevolezza ferina e la caduta nella mutabilità della Storia. Questo paradigma permane anche dietro strategie culturali molto moderne, ad esempio nella filosofia del nomadismo, che privilegia lo spaesamento come istanza straniante per sottrarsi al controllo e all’assoggettazione. Naturalmente la cacciata dall’Eden implica il desiderio di un ritorno, che invece la caduta nella Storia non è in grado di prefigurare. Il nomadismo poi cerca lo sradicamento come accesso a un non-luogo epifanico dove sarebbe in atto un continuo processo di svelamento, ancorché dall’incerto contenuto. Infatti nell’erranza, nel farsi stranieri a se stessi, il nomadismo cerca una disposizione all’ascolto di qualcosa che definirei: la balbuzie dell’assoluto.

All’interno della configurazione del mondo, e oltre le sue valenze figurali, il viaggio, come si è già accennato, assume il suo senso determinante sulla base delle motivazioni che lo hanno promosso, delle intenzioni che lo hanno guidato, e dei fini che si propone. Perciò riguardo alla partenza, il viaggio può essere volontario o forzato, intrapreso per piacere o per necessità; può essere una gita o una fuga. Il transito può avvenire con mezzi di linea o con mezzi di fortuna; può essere una piccola spedizione, oppure una migrazione di massa; può avvenire in un unico trasporto o per infiltrazione continua; può essere un rapido passaggio o un errare smarrito nel labirinto e nel deserto.

Rispetto all’arrivo il viaggio può essere una deportazione, un contatto commerciale, un’invasione, un’evangelizzazione; può avere una meta o non averla, può avere una meta ignota o una meta mobile: in tal caso diventa un inseguimento come nella caccia, o come nella caccia all’uomo, che fornisce la trama al giallo d’azione. Può avere una meta reale, collocata nello spazio, o una meta ideale o iniziatica, se percepita come “maturità dei tempi”, o avere entrambe queste caratteristiche come la quest del cavaliere errante, che si svolge infatti in una doppia dimensione: naturale e sovrannaturale.

2. La partenza
Ma cominciamo dalla partenza. La partenza comporta il distacco da un luogo noto, una separazione da legami e condizioni in qualche misura stabilizzati e una peculiare riformulazione per via negativa, ovvero per sottrazione, del riscontro sociale alla propria identità: l’origine rimane ad una distanza che andrà ad aumentare nel corso del viaggio, parallelamente a uno scemare della sua incidenza pragmatica e ad una sua collocazione nella memoria. Nella memoria costituirà un bagaglio identificativo residuo, ma per ciò stesso più personale e soggettivo, più autentico o più idealizzato dalla nostalgia rispetto a quanto si è effettivamente abbandonato. Partire è rinuncia a una parte di sé, destinata a rimanere indietro, a perdersi nel passato, e dunque è un processo di affinamento, che obbliga a distinguere il necessario dal superfluo.

La partenza è una sopravvivenza, in senso figurato e in senso proprio, e ancor più lo sono del resto il transito e l’arrivo, basti pensare alle perdite di vite umane, storicamente documentate, di tutte le migrazioni, decimate durante il tragitto. Se questo comporta una selezione naturale, per cui solo il più forte sopravvive al viaggio, la rinuncia a gran parte di sé, seppure parte superflua, o costretta a diventare tale, riduce tuttavia il sé in una condizione di debolezza che, laddove il viaggio non sia un ritorno, troverà il suo punto estremo proprio all’arrivo.

Quando il viaggio non è volontario, bensì è una deportazione, un esilio, una fuga, la perdita prodotta dalla partenza appare irrimediabile, e la sopravvivenza assorbe tutti gli sforzi dei viaggiatori. In questo caso il soggiorno nei confini del mezzo di trasporto, sempre più assimilabile a un’istituzione totale, rende più evidente un carattere comune a ogni tipo di viaggio, e cioè una certa limitazione della libertà, una misura più o meno necessaria di rinuncia alla democrazia a favore delle decisioni dei tecnici del trasporto, siano essi i funzionari di un aeroporto, il capitano e gli ufficiali di una nave, o infine gli aguzzini di una galera.

La partenza è anche la coincidenza di una fine e di un inizio: fine di un soggiorno materiale e di una posizione spirituale; è la chiusura di un’esperienza, e l’aprirsi di una disposizione proiettiva dove futuro ed eventi si sovrappongono prefigurando l’avvenire come avventura. L’avventura è, infatti, il genere narrativo congeniale ai giovani, perché rappresenta il mondo come appare nella loro prospettiva di vita, vale a dire come un territorio in gran parte inesplorato e non privo di pericoli, ma che essi sono ben decisi a conquistare. Viceversa il ritorno si connette a una condizione di maturità, in parte acquisita col viaggio stesso, spesso peraltro contaminata di nostalgia per la mobilità perduta, ove si rimpiangono, trasfigurate, vitalità e incoscienza.

3 Il transito
Il transito è per definizione transitorio, cioè temporaneo, se non precario; è lo spazio e il tempo di mezzo; è ciò che bisogna superare e lasciare: pedaggio da pagare alla distanza, che si fa ostacolo e attesa. Nel transito la debolezza del viaggiatore si manifesta come esposizione al pericolo; perciò la parziale rinuncia alla democrazia, di cui si è detto, si giustifica come necessità di dare coesione alla compagnia dei passeggeri sotto un unico comando. La tragicità che da tale situazione può scaturire, come per esempio in Billy Budd di Herman Melville, è una delle poche possibilità di tragedia nella modernità, forse perché, nella nostra cultura, il culto della democrazia ha preso il posto del sacro.

Ma il transito costituisce il corpo stesso del viaggio, sia perché rispetto alla partenza e all’arrivo è effettivamente la fase del movimento e del trasporto, sia perché ha in sé il senso di ciò che il viaggio effettivamente è nella maggior parte dei casi, quando non è né fuga, né migrazione, né invasione, bensì esplorazione, ricognizione, visita, quando cioè comporta il ritorno, e dunque collega e prevede di reiterare partenza ed arrivo. Nel transito partenza ed arrivo si ripetono continuamente, per tappe stabilite, ma anche per infinitesime tappe intermedie, determinate virtualmente o realmente dalla natura degli spazi percorsi.

Abbiamo già detto che le poetiche e le filosofie postmoderne prediligono il transito, il gioco, l’erranza, il nomadismo. Il cosmopolitismo è un’altra forma di non radicamento che si alterna nella storia dell’occidente in fasi di storicismo e universalismo, di localismo e mondialismo. La tanto discussa globalizzazione genera apprezzamenti conflittuali perché sembra travolgere le particolarità locali, indebolire le identità, impoverire le culture, ma anche perché ci mette di fronte a due cose opposte: la possibilità di andare dovunque e il senso del limite che emerge dalla coscienza che non vi sono più altri luoghi da raggiungere.

Già Kant, nel suo scritto Per la pace perpetua, diceva che la sfericità della terra impedisce agli esseri umani di allontanarsi indefinitamente gli uni dagli altri. Questo conforta chi, come Phileas Fogg nel Giro del mondo in 80 giorni, sa che “time is money”, ma la stessa notizia può essere appresa con eroica angoscia nel poema che recita:

“da un pezzo lo perseguita la smania esploratrice,
però non sa, infelice, che diavolo esplorar”.

E quindi l’impulso esplorativo può sopravvivere solo cambiando dimensione, individuando una nuova geografia antropica, articolata dagli spazi informativi. I mondi nuovi, quelli virtuali, sono tessuti dalla rete telematica, o meglio sono quelli che ognuno di noi può tessere, traendoli come un aracnide dalla propria creatività per allargare la rete. Le nuove colonizzazioni e conquiste saranno l’istituzione di nuovi siti web capaci di occupare la notorietà e attrarre un gran numero di visitatori. Il sito è la nuova forma di edilizia adeguata, e chi vi abita è un’immagine di sé che offre, pur entro prospettive nomadiche, una temporanea sedentarietà identificativa, principalmente in termini di stile fàtico.

D’altro lato il viaggio virtuale sembrerebbe quello che non si può più narrare, perché riduce la cronologia della mobilità ad una presentificazione continua e istantanea. E’ però già evidente che il genere letterario che sottende alla gran parte della nuova geografia espressiva è quello sommamente e meramente ordinativo della lista, del deposito nella già menzionata banca dati. Questa forma dominante di memoria, sostanzialmente nozionale e nozionistica, trova da sempre i suoi depositi nei cataloghi, nelle enciclopedie, nei dizionari, nei musei o addirittura nei sotterranei dei musei, tutte localizzazioni cioè che hanno in comune un distacco dal luogo e dal momento di utilizzazione.

Dalla memoria individuale alla scrittura, al deposito in dizionario, il sapere perde sempre di più la sua contiguità con la persona, e per alcuni rimane quantità inattivata, per altri diventa entità transpersonale e astorica, dominante perciò oltre l’umano. Ciò ripropone il computer, e la rete di cui fa parte, non solo come materializzazione del distacco tra mente e corpo, da sempre oggetto di meditazione, ma anche come situazione dell’uomo intrappolato nella rete del linguaggio e parlato da esso.

Tuttavia la caratteristica saliente di tale dislocazione mnemonica al di fuori dei confini fisici umani, non è tanto il distacco, quanto la disposizione solubile del sapere su base alfabetica o su base di repertorio, attivabile con metodi di collegamento permutativi e commutativi. La non linearità del testo telematico è la nuova forma del grado zero della scrittura, perché azzera gli avvaloramenti culturali connessi ai precedenti generi letterari, e li sostituisce con quelli dei programmi di gestione dei dati. Per certi versi è un fatto inquietante, perché è una sofisticata forma di assassinio della memoria.

 4. L‘arrivo
L’arrivo è il momento in cui il viaggiatore, da nativo che era alla partenza, porta a compimento la mutazione iniziata durante il transito, e si trasforma in straniero. Ora la condizione di estraneo implica un confronto, se non un conflitto, con il luogo e la società in cui si è pervenuti e, come si è detto, da una posizione di debolezza. Si può essere accolti da ostilità e visti come invasori, oppure si può essere accolti benevolmente, come nel caso del turista, il quale è un invasore il cui viaggio viene incentivato dalle sue mete stesse Anche in questo caso c’è un punto critico oltre il quale la quantità si trasforma in qualità, e la benevolenza può trasformarsi in ostilità. A dire il vero, la storia d’Italia ci offre lo strano, ma ricorrente caso, in cui gli invasori, più o meno ostili, da Carlo VIII ai clandestini di oggi, sono chiamati in Italia da una parte degli italiani stessi.

L’intenzione aggressiva delle conquiste è infatti consapevole della debolezza intrinseca all’arrivo e mira perciò a capovolgerla in dominio, dotandosi di opportuno armamentario bellico. La fondazione di un impero ha spesso all’origine un viaggio, reale o leggendario, da quello di Enea a quello di Colombo, alle esplorazioni africane dei colonialisti britannici. La scansione delle stesse epoche storiche si basa sulle scoperte geografiche e sulle migrazioni dei popoli, dal crollo dell’Impero Romano alla scoperta dell’America. E’ inoltre sapere comune che le migrazioni sono l’elemento fondante delle ipotesi diffusionistiche, rispetto a quelle evoluzionistiche, nel pensiero etnologico.

L’arrivo comporta comunque una ristrutturazione del sé e l’inizio di una fase nuova, di adattamento al nuovo ambiente, naturale e sociale. Tarzan è l’esempio popolare di come l’eroe imperialista, che originariamente è un gentleman inglese, per sopravvivere ad un arrivo disastroso, debba adattarsi all’ambiente, mimetizzando in termini selvatici la sua nobiltà d’origine, ma assumendo anche un’altra patria e un’ideologia almeno parzialmente anticolonialista e proto-ecologista. A livello alto e in modo non altrettanto ottimistico, Conrad ci presenta un altro caso di tale assimilazione mimetica nel Kurtz di Heart of Darkness. Anche qui l’ambivalenza della commistione culturale comporta la conversione dell’eroe bianco alla natura del luogo d’arrivo, ma l’effetto della trasformazione, come si sa, si manifesta come orrore.

5. Il ritorno
Rispetto all’arrivo, che è un incontro con l’alterità, il ritorno è un incontro con se stessi, un confronto tra le due parti di sé che si sono separate alla partenza e ora dovrebbero riunirsi. Ma nel frattempo sia il viaggiatore, sia il suo passato si sono modificati. Anche qui la fantascienza ci soccorre, dilatando gli effetti di ogni ritorno, quando, dopo un viaggio di pochi mesi, fa tornare gli astronauti sulla Terra dove invece nel frattempo sono passati secoli.

A questo proposito il viaggio in rete configura una cronologia molto elastica, per cui può sembrare di aver attraversato siti virtualmente sconfinati, per un tempo indeterminato, e tornare alla realtà accorgendosi che è trascorsa solo qualche ora, oppure viceversa rimanere concentrati sullo schermo nella redazione di un testo, perdendo il senso del tempo, e accorgersi di aver perso gli appuntamenti della giornata.

Quanto al ritorno, esso è descrivibile in termini di simmetria rispetto all’andata, e comporta il ritrovamento e la ripetizione: ripete cioè capovolte le fasi del viaggio. In questo nuovo ordine, l’arrivo appare allora una sopravvivenza definitiva, che il viaggiatore raggiunge allontanandosi dalla condizione debole di straniero per riacquistare, novello Anteo, la forza della madrepatria. Non a caso l’epopea del ritorno è L’odissea, costituita pressoché totalmente da ripetuti episodi di sopravvivenza: a Polifemo, a Scilla e Cariddi, a Circe, alle sirene ecc. Ulisse è eroico perché sopravvive e ritorna. Il suo carattere multiforme consiste anche, se non soprattutto, nella capacità di scansare i più diversi colpi della sorte; la somma delle sue qualità dà come risultato un residuo di vita. Ma il ritorno è anche un andare a visitare se stessi, con un effetto di sdoppiamento, perché chi torna reca con sé parte dell’estraneo che era all’estero, e invero sarebbe sorprendente il contrario, come rivela questo aneddoto di sapore kafkiano: Il signor K. incontrò un amico che non vedeva da molti anni. “Oh signor K. – disse questi – lei non è per niente cambiato!” “Davvero?!” disse il signor K. impallidendo.

La discesa agli inferi, come ogni morte e resurrezione, è la versione mitica dell’andata e del ritorno. In questa doppia esperienza è arduo, pur nel sopravvivere, il computo di ciò che si è perso e di ciò che si è conservato o acquisito nella trasformazione di sé. Il mito di Orfeo, che è figura dionisiaca, è tra i più ambigui e misteriosi perché, tra le altre cose, tematizza questa incertezza. Eguale incertezza ci coglie quando ci chiediamo quale filosofia sottenda alla navigazione in rete.

 6. Navigare in rete
Il verbo navigare, adottato per questa peculiare modalità del viaggio, deriva ovviamente dal viaggio per mare, rafforzato dal reimpiego astronautico. L’adozione di questo termine intende infatti denotare la più ampia possibilità di muoversi in tutte le direzioni, nelle tre dimensioni spaziali, e in una quarta dimensione di tipo nuovo, che non è propriamente quella temporale, ma quella della virtualità. Si tratta di una dimensione ancora da comprendere appieno, essendo nello stesso tempo immaginaria e progettuale, vale a dire un mondo di finzione, destinato a rimanere tale, e insieme un progetto potenzialmente realizzabile nel futuro.

In maniera analoga il navigatore in rete è una figura multiforme, ancora in gran parte da identificare. Egli, almeno per ora, è innanzitutto una figura del transito, vale a dire un viaggiatore che trova il senso della sua mobilità nell’esecuzione, più che nelle motivazioni di partenza o nelle finalità dell’arrivo. E’ il viaggiatore per il quale la meta perde relativamente interesse, e in un certo senso permane nel cuore del viaggio, che è lo spostamento reiterato se non perpetuo. La sua ragion d’essere va dunque assimilata e messa a confronto con quella di altre figure del transito quali il picaro, il cavaliere errante, il chierico vagante, il pendolare.

Come il picaro, il navigatore si aggira in un mondo di nuova istituzione, all’alba di una nuova era sociologica, oltre che tecnologica; in un mondo in formazione e in rapidissima espansione, dove grande è la possibilità di ascendere e di cadere. L’atteggiamento del picaro è la curiosità, il suo status è la provenienza dal nulla, ovvero la mancanza di una tradizione, ma questo non è uno svantaggio, perché toglie ogni inibizione e favorisce lo spirito d’adattamento: così i pionieri dell’informatica e i talenti della programmazione sono coloro che si sono più facilmente lasciati alle spalle le abitudini contratte nella tradizione culturale pre-digitale. E’ il lato positivo di ciò che prima abbiamo definito: assassinio della memoria.

Come il cavaliere, che è errante, sia perché si muove, sia perché è sviato per sentieri errati, e il motivo del suo continuo viaggio sta anche nel non trovare mai la strada giusta, così il navigatore in rete, seppure parte con una meta, resta affascinato dai siti che visita e attraversa; viene presto sviato da innumerevoli link che occhieggiano e si pongono come miraggi e trappole sul suo cammino, prefigurando prospettive di altri siti. Il navigatore in internet rimane spesso prigioniero di castelli incantati, per di più interconnessi come scatole cinesi, e la sua meta viene differita e trasformata nel percorso. Egli così è vittima consenziente del canto di tutte le sirene, ma non soccombe a nessuna di esse in particolare, perché di nuovo continuamente sottratto e allontanato da altri canti di altre sirene.

Come il chierico vagante il navigatore in rete frequenta i luoghi del sapere, prendendo i suoi insegnamenti dove ritiene di trovarli secondo preferenze non più ostacolate dalla distanza, e libero da condizionamenti gerarchici di scuola, attestati di studio e legalismi burocratici. In questo senso è il discepolo della nuova università intesa come ripristinata universalità delle discipline. Sennonché la disciplina universalizzante, presupposto indispensabile di tutte le altre, è la capacità stessa di navigare per riconoscere e tracciare nuove rotte e gerarchie pedagogiche.

Infine il navigatore in rete può essere paragonato al pendolare: il pendolarismo crea infatti un ambiente specifico, propriamente legato al transito, che finisce per assumere una funzione aggiuntiva alle dimensioni consuete della vita, in modo quasi stabile. L’ambiente del pendolarismo non è quello che rapporta il mezzo al mondo entro cui il mezzo si muove, bensì quello interno al mezzo e costituito dall’ethos dei viaggiatori. I pendolari vivono il tempo del transito, costituendo una società sui generis che si forma alla partenza, dura il tempo del percorso e si scioglie all’arrivo, per riformarsi quando si ritrovano il giorno dopo, entro la stessa carrozza ferroviaria. Uscito dal mezzo ogni viaggiatore pendolare diventa un altro personaggio, con interessi e comportamenti del tutto diversi. In questo senso l’ambiente della rete, di per sé invisibile al di fuori della schermata, è costituito anch’esso principalmente dagli scambi informativi fra i viaggiatori per la durata della loro presenza nel mezzo.

Sia per i pendolari sia per i navigatori di internet si può perciò parafrasare lo slogan di McLuhan “il mezzo è il messaggio”, che diventa: il mezzo è il viaggio. La virtualità della rete fa sì che essa esista solo per la durata della sua frequentazione. Quando il navigatore esce dalla rete e smette di navigare, riacquista una dimensione di vita del tutto differente, come il pendolare che scende dal treno e ritorna alla sua vita reale.

Sappiamo peraltro che il fascino della rete è tale da indurre talvolta a un’assuefazione che per ora consideriamo patologica, allorché il navigatore non interrompe il suo viaggio nemmeno per mangiare, adattandosi a mangiare panini senza staccarsi dallo schermo, e a dormire poche ore in un sacco a pelo ai piedi del computer. Naturalmente la fantascienza cyberpunk ha già capovolto il rapporto tra virtualità e realtà, rappresentando i drogati della rete come superuomini e il loro soggiorno nella realtà come una temporanea minorazione fisica che toglie ogni senso alla vita.

Ma da che deriva il fascino della rete? Certamente da molteplici aspetti: in primo luogo però dal fatto che, per chi soggiorna nel transito, la rete implode quasi la totalità delle funzioni legate all’esperienza del viaggio, che in altri tipi di mobilità sono distribuite fra entità e agenti diversi: la rete infatti assomma in sé i caratteri del mezzo, della strada, della meta, del mondo, ma anche del viaggiatore e del viaggio stesso, perché solo nel porsi come nodo costitutivo della rete il navigatore accede ad essa e può stazionarvi.

Quando si viaggia in un mezzo che costituisce un ambiente, per esempio una carrozza ferroviaria, ci si sposta insieme ad essa, ma all’interno dello scompartimento e rispetto ad esso si ha la sensazione di stare fermi. Questa doppia, ma contemporanea, modalità dell’esperienza è accentuata dal viaggio in rete, perché, mentre il corpo rimane fermo, ma soprattutto rimane nell’ambiente reale, l’attenzione e tutte le funzioni mentali del navigatore si allontanano virtualmente nello spazio cibernetico, uscendo per così dire da lui per entrare nella macchina. Non a caso Elémire Zolla ha parlato di “uscite dal mondo”. Viaggiare in internet è dunque in primo luogo un’accentuata separazione di corpo e mente, da un lato simile a uno stato di estasi sciamanica, dall’altro come stato che realizza, semplicemente in grado più elevato e problematico, quel processo di selezione fra ciò che si lascia e ciò che si porta con sé tipico di tutti i viaggi. Ciò che si è costretti a lasciare è quasi tutta la sfera del sensibile, a vantaggio della sfera dell’intelligibile. Sennonché le due sfere d’esperienza si nutrono a vicenda e la separazione può portare a una deformazione e ad un immiserimento di entrambe.

A prima vista il soggiorno in rete appare quindi come un’attività basata principalmente sulla conoscenza. Si tratterebbe di una testualizzazione del mondo e di una cognitivizzazione dell’esperienza vitale che la riduce quasi fino ad abolirla, perché abolisce i corpi. Se Ulisse resiste alle sirene della natura vitalistica, e sopravvive perché conserva la freddezza della mente ovvero l’intellettualità, oltre che la saggezza, ora il pericolo è opposto: viaggiare in rete sembrerebbe un’avventura senza referenti, tra i significati e non tra le cose.

Se a ciò aggiungiamo ciò che abbiamo definito: capacità di implodere la totalità delle funzioni distribuite fra i vari elementi del viaggio, aumenta problematicamente la possibilità di collasso di alcuni sistemi distintivi. Il fatto che il viaggiatore diventi un nodo della rete, significa che egli stesso ne fa parte, che il suo sito è un punto del percorso che gli altri navigatori visitano e attraversano. Egli non solo è una fonte e un destinatario di messaggi, ma è anche un legame, un tratto contestuale che offre un riscontro alla fede comune nella comunicabilità; è un effetto dello scambio sociale delle nuove comunità, virtuali o meno.

Nella percezione e nella conoscenza colui che osserva e interroga lo spazio del mondo deve euristicamente assumere una posizione separata dall’oggetto osservato. Nella rete invece l’orizzonte percorribile è coestensivo del navigatore e dà luogo a un intreccio tra l’essere, la sua dimora e la sua mobilità virtuale. L’enfasi epistemologica del posizionamento nella rete cade su una situazione di collasso della distinzione tra alcune modalità dell’essere e dell’esperienza.

In termini psico-semiotici ad esempio il rapporto segnico col referente non è più l’elaborazione della luttuosità per l’assenza della cosa, ma una sorta di palindromo epistemico, dove la cosalità del segno emancipa il simulacro a luogo di una nuova geografia della complessità, dove sapere ed esperienza appunto non sono più separati. E questo può essere inteso come regressione in una contaminazione psicotica.

Ma a questo punto, nel navigatore in rete, comincia a configurarsi l’immagine del nuovo soggetto, che altrove abbiamo chiamato appunto “uomo virtuale”. La sua fenomenologia, oltre la virtualità, contempla la nodalità, vale a dire una funzionalità capace di gestire contemporaneamente tutta la diversificazione di rapporti che il nuovo cronotopo in cui ci troviamo ha prodotto per noi. Essa comprende l’intreccio di vissuti cronologici diversi: brevi e lunghi, continui e frammentati; comprende la proiezione molteplice in ruoli diversi, privati e pubblici, attivi, passivi, o interattivi, e a gradi diversi di socialità più o meno ampia.

Il nodo è perciò l’immagine che rivendica una capacità di intervento rispondente alla complessità del mondo, perché rispecchia un’epistemologia reticolare capace di proteggere l’uomo dall’attualità e dall’alta probabilità di corto circuito e quindi di collasso operativo che l’eccesso di attualità e identità nomadica comporta.

L’immagine del nodo affronta così la schizofrenia funzionale dei nostri tempi, cercando di coordinare la disseminazione in sincronismo. Cercando di legare i frammenti virtuali dell’io in una nuova politica dell’identità, il nodo si esibisce come nuova immagine del cuore umano.

 Leonardo Terzo, 1999

 

 

When people in this state hear about something like irradiation, they’re info suspicious