Il sublime arcaico e aggiornato

uyyuLeonardo Terzo, Sub Limen, 2013

Il bello è quiete, compiutezza abbracciabile dallo sguardo, computabile nel metro d’un verso, nella struttura di una forma. In quanto determinato e determinabile il bello si rapporta al mondo e all’esistente, perciò si suppone innestato in una realtà non estetica e condizionato da essa. Nel momento in cui l’estetica pretende l’autonomia della sua esperienza dal mondo delle altre esperienze, comincia la tensione al trascendimento che aspira a qualcos’altro, denominato sublime.

Qui probabilmente sta l’inizio dell’equivoco: se non innestata nel resto del tutto e di tutte le altre esperienze, anche l’esperienza estetica non può dirsi esperienza. Essa infatti è il prodotto del rapporto dell’uomo, che è fatto di tutte le esperienze accessibili, con un’aspirazione concepita intellettualmente senza riferimento ad alcunché, appunto perché aspirante a separarsi e ad andare oltre l’”alcunché”.

Il bello e il sublime confinano, stanno uno al di qua e l’altro al di là  di una soglia ermeneutica: il bello pone l’intelligibile nel sensibile e ne celebra la coincidenza; il sublime li avvicina, ma non li unisce, bensì vuole mostrarne l’incommensurabilità. Il sublime comincia infatti quando il bello finisce e comincia l’Altro, infuturato nell’indicibile, ovvero nel non sensibilizzabile, ma anche nel non significabile e intellettualizzabile. Perciò volendo fuggire il sensibile, ovvero il significante, perde anche il significato. Né resta un sensibile insignificante, ma solo un vuoto di entrambi. Esso pretende di rivelarsi nel nascondimento, ma si rivela solo nell’estasi malinconica dell’assenza, a sua volta priva di oggetto. Non si sa nemmeno cosa manchi, eppure si vuole sentire una nostalgia per tale mancanza.

Nell’esperienza del bello tuttavia si raggiunge una condizione peculiare, che sarebbe appunto la sua natura estetica, la quale conterrebbe in sé, proprio per la sua perfezione appagante, una straordinarietà. Allora il sublime si spiega come concettualizzazione di tale straordinarietà, che da occorrenza raggiungibile si proietta iperbolicamente oltre se stessa, idealizzando la sua straordinarietà e ponendosi quindi oltre il bello stesso. Così il sublime sarebbe solo un’onorificenza del bello, conferita per onorarne i meriti.

Il bello invece accoglie l’indipendenza dell’estetica in un altro senso, vale a dire nel formalismo, come sapere, coscienza, percezione, evidenza e vanità esibitiva della misura e dell’esattezza, per cui l’efficacia formativa si rende autonoma dai fini pratici e diventa forma in quanto paradigma dell’apprezzare in sé. Il modo in cui il formalismo trascende non è il divenire deformante del sublime, ma il distacco da ogni finalizzazione ad un’efficacia estrinseca. L’estetica del bello apre il mondo concettuale della bellezza stessa, che prima affianca l’oggetto della rappresentazione come deformazione interna alla formazione della forma (stile, voce, ispirazione ecc.) e infine prescinde dalla rappresentazione stessa, trasferendo l’autoriflessività sull’evidenza tecnica dello specifico artistico.

Il sublime invece intende porre il trascendimento oltre la percepibilità, cascando così in un vuoto di percezione, ovvero nella indeterminatezza di un vuoto che non può essere percepito, ma solo desiderato. Il non percepito del sublime può risvegliare vari sentimenti: paura o meglio angoscia (paura senza oggetto), malinconia ovvero tristezza per l’assenza, nel migliore dei casi intuizione di ciò che sfugge alla concettualizzazione, ma riflette sulla prassi conoscitiva a prescindere da ogni idea o oggetto.

La musica è per se stessa armonia che risuona nei sensi con un effetto di consonanza con la vita e la vitalità nei suoi aspetti di iniziativa, indugio e completamento, connaturati all’espletarsi del vivere dei sensi, e rispecchiati nella tripartizione narrativa: inizio, mezzo e fine. Su di essi si fanno tutte le variazioni possibili, ma alla fine vanno ricondotti alla tripartizione, anche quando essa non è completata, perché il suo significato di sospensione o interruzione è correlato al mancato compimento originario. Il sublime è auto-consolazione per l’impossibilità e l’incapacità del compimento. Esso celebra la mancanza, che interpreta come significativa dell’essere per la morte, ma la morte stessa  può essere concepita con serenità, invece che con angoscia.

Il sublime dello Pseudo-Longino come slancio e spinta ad elevarsi verso l’alto implica una prima consapevolezza dei livelli di cultura, ma esso è spinta a raggiungere la perfezione del bello, non a sbagliare la mira e ad uscire dal segno della compiutezza, perché ha consapevolezza della meta, cioè le cose ultime e somme, cioè inevitabilmente prefigurate, se non schematizzate in un disegno dell’essere nobile. Ricordiamo che la cultura antica è aristocratica, e la tragedia stessa vuole la catarsi, non la disperazione. Quando Filottete rifiuta di tornare all’assedio di Troia, il deus ex machina lo riconduce all’armonia.

Il sublime pre-romantico elogia l’energia che muove il divenire, e perciò va oltre la posizione di stasi originaria, ma non capisce che la mossa ricade nel limite della vita e si illude di trascenderla attraverso l’idea, il pensiero, o meglio attraverso il desiderio, l’immaginazione, la visione, l’idealizzazione, l’utopia soggettiva, invece che la condivisione della valorizzazione collettiva. Il suo modello è la passione, che però è istintuale, e dunque è una passione elevata che conserva lo slancio istintuale promuovendolo. La malinconia e l’infelicità che ne derivano dimostrano il fallimento del balzo.

L’auto-consolazione nobilita così il fallimento. Invece di celebrare la conquista si compiace mestamente dell’incapacità. È l’idealità di una classe sociale al tramonto, ovvero di un’aristocrazia in decadenza. Vi si contrappone il carnevale plebeo, che celebra la vitalità senza slancio che non sia crapula, paese dei balocchi, illusione di un mondo capovolto che rispecchia a sua volta l’incapacità di divenire classe dominante. La convenienza del bello è superata dalla sconvenienza della volgarità.

Leonardo Terzo

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