Fotografia, malinconia e surrealtà. Lo strano caso della “decreazione”.

TwinsEmporio Porpora, Twins, 2013

A distanza di un’epoca, Sontag non è più molto entusiasta dell’elaborazione surrealista della realtà, e ne vede il sopravvissuto interesse e valore non più nelle arti proprie e nelle poetiche moderniste in generale, ma solo nella fotografia. Vi è sottesa la nozione che il modernismo, in tutte le arti, è stato influenzato dalla fotografia, e quando le arti della prima metà del ‘900 sono passate d’attualità, ciò che resta della civiltà estetica modernista sia solo la fotografia. E non per il meglio.

L’insolita tesi di Sontag sul rapporto tra surrealismo e fotografia è che le trovate e gli accorgimenti elaborati dai surrealisti veri e propri (Man Ray, Moholy-Nagy, Bragaglia ecc.) ora le sembrano ingenui e banali, oltre che subito utilizzati dalla moda e dalla pubblicità. Mentre il vero surrealismo sarebbe quello reperibile nella documentazione sui quartieri di città come Parigi, Londra e New York, fotografati a suo tempo e ora non più esistenti. Esse sarebbero surreali perché sono “tempo perduto” e “usanze svanite”. Tra le colpe del surrealismo ufficiale ci sarebbe anche la celebrazione del caso e dell’incidente. Ma la non intenzionalità degli effetti surreali è invece proprio connaturata alla meccanicità del procedimento fotografico, già ridicolizzata nel film The Cameraman, 1928, da Buster Keaton. Vedi: http://www.youtube.com/watch?v=zo85hdekH4w

L’avversione di Sontag, per quell’insieme di casi e fenomeni dell’ideologia estetica definiti surrealismo, ha prima di tutto un lato sociologico, come “disaffezione borghese”, prodotto locale, etnico, classista, datato ( Sontag, Sulla fotografia, Einaudi, Torino, 2004, pp. 47-48). In questo eccesso di umore atrabiliare Sontag vede il fotografo simile al perdigiorno (flaneur) immortalato da Baudelaire, “che scopre la città come paesaggio di estremità voluttuose”, o che cattura la realtà come un poliziotto cattura un criminale. E qui si cita il famoso Weegee, 1989-68, fotografo di cronaca specializzato nella documentazione della violenza metropolitana a New York.

Tutto ciò che viene fotografato diventerebbe surreale perché si trasforma in quello che oggi la filosofia della differenza definisce l’Altro. Non è chiaro se i fotografi siano corresponsabili di un disprezzo connaturato al distanziamento pittoresco della miseria tramite la fotografia, o se la loro colpa sia la neutralità professionale con cui alternavano “indagini sull’abiezione sociale a ritratti di celebrità e di oggetti d’uso (alta moda, pubblicità)…” (p. 51). Di questo disprezzo delittuoso sono accusati tutti i fotografi più famosi della prima metà del secolo, da Richard Avedon a Cecil Beaton, a Ghitta Carrell (che immortalò in foto ufficiali Mussolini, ma anche la regina Elisabetta, Cesare Pavese e Giovanni XXIII).

Unidentified flying objectsEmporio Porpora, Unidentified Flying Objects, 2013

Questo cattivo umore dà luogo a definizioni aspre anche se talvolta perspicaci: “Alcuni fotografi si pongono come scienziati, altri come moralisti. Gli scienziati fanno un inventario del mondo, i moralisti si concentrano sui mali del mondo” (p. 52). Fra i primi Sontag colloca il tedesco August Sander, 1876-1964, censurato dai nazisti, ma al quale comunque rimprovera un certo astrattismo nichilista. Invece ritiene che gli americani, che pure documentano le realtà del loro mondo, siano meno sistematici, ma più “moralisti”.

Forse occorrerebbe riflettere, come in parte abbiamo già fatto, che il fotografo è soprattutto un uomo del mestiere, ma che anche da dilettante si trova in una situazione inevitabilmente “esistenzialista”, cioè scagliato in una parte di mondo, da cui a sua volta sceglie e ritaglia una parte ancor più ridotta disponibile davanti al suo obiettivo. Egli lavora nelle circostanze date, ma potrebbe impiegare la sua vocazione in ogni circostanza. Tutti siamo fotografi e tutti abbiamo i nostri interessi più o meno provvisori. E un professionista o dilettante delle immagini è insieme un artista, un artigiano, un designer, portato, se vuole, a impegnarsi in tutta la gamma delle creatività, dalle arti applicate a quelle più astratte e concettuali. 

Il malumore espresso dalla Sontag in questo saggio travasa poi sugli aspetti politico-sociali dell’uso della fotografia come strumento, anche qui contrapponendo Europa ed America. Sontag vede nel tedesco Sander colui che si adatta al soggetto e all’ambiente fotografato, con ciò rimproverandogli di aderire fedelmente alle differenze di classe con quella che lei ritiene una chiara complicità. Da un lato gli riconosce una certa imparzialità, dall’altra sembra imputargli condiscendenza: “Senza rendersene conto, Sander adattava il suo stile al rango sociale della persona che fotografava” (p. 54). Con ciò tutta l’oggettività e il realismo della fotografia come tecnica viene dimenticata, come se Sander potesse davvero inventare uno stile sociale appropriato ogni volta che si imbattesse in un diverso livello sociale.

Il contrario invece sembra accadere agli americani, (per esempio il progetto della Farm Security Administration) che, se fotografano i poveri, lo fanno, a detta di Sontag, con dignità e simpatia, come se davvero potessero immettere le intenzioni propagandistiche positive in immagini che trasformassero i poveri, così da renderli dignitosi e simpatici. Sembra insomma che il fotografo possa “falsificare” l’aspetto dei soggetti fotografati per renderli più apprezzabili o meno. I sentimenti dei fotografi nel giudizio di Sontag prevalgono sull’oggettività di ciò che si vede. La falsa neutralità degli europei come Sander dipenderebbe dalla convinzione che la società ha una stratificazione stabile e comprensibile, dove ognuno ha il suo posto, mentre gli americani sarebbero “interventisti” anche tramite la fotografia, perché più aperti a intendere la società come qualcosa di modificabile. 

Bride and PhotographyEmporio Porpora, Bride and Photography, 2013

L’effetto della fotografia, a prescindere dalle intenzioni dei fotografi, è invece semplicemente di rendere note, e quindi magari finalmente visibili, cose e ambienti sociali che prima erano, colpevolmente o meno, ignorate, e di conseguenza “trascurate”. La conoscenza permette eventualmente di intervenire, per sanare condizioni di vita negative (il lavoro minorile nelle miniere e nei campi di cotone, documentato da Lewis Hine all’inizio del secolo), come denunciare e reprimere il crimine, o soccorrere i diseredati con programmi di intervento economico. Non senza peraltro provocare talvolta effetti imprevisti, come l’invasione dei turisti nelle terre degli indiani dell’Arizona e del Nuovo Messico, fotografati da Adam Clark Vroman tra il 1897 e il 1904, che ne affrettò la sparizione culturale prima ancora che fisica.

Possiamo osservare che la fotografia subisce, di necessità passivamente, tutti i giudizi, gli umori e malumori, come pure, del resto, le esaltazioni di chiunque si senta un po’ impratichito, sia come semplice consumatore che come produttore di fotografie. Per Sontag qui per esempio la fotografia è autoritaria, potenziata dalla sua natura di macchina, anche quando interviene positivamente. Ciò è banalmente vero, nel senso che proprio come mezzo di comunicazione la fotografia ha un potere e una forza e, come ogni strumento, può essere usato bene o male.  “…[F]otografare qualcosa divenne anzi parte integrante della procedura per modificarla” (p. 57). “Gli americani si servivano della macchina fotografica per prendere possesso dei luoghi che visitavano”… “Moralisti e saccheggiatori incoscienti, bambini e stranieri nella loro terra, prendono appunti su cose che stanno scomparendo, e spesso ne affrettano, fotografandole, la sparizione” (p. 58). 

Questa ubiquità valoriale della fotografia può trasformarsi in vitalità o in tristezza. Così Clarence John Laughlin, verso gli anni Trenta, comincia a fotografare luoghi spettrali ed edifici abbandonati. “Dietro le asserzioni individuali dei fotografi americani di guardarsi intorno a caso, senza preconcetti – imbattendosi nei soggetti, registrandoli flemmaticamente – c’è una lugubre visione di morte” (p. 59). A questo si può però affiancare la scelta di stile, egualmente triste e desolato, dei coniugi tedeschi Becher, contemporanei già menzionati, che prediligono gli stabilimenti abbandonati, anche se loro sono artisti concettuali, mente quello di Laughlin sarebbe romanticismo estremo. Morte, passato, attualità, modernità, si possono considerare in una prospettiva retrograda: conserviamo il “come eravamo”; oppure innovatrice: documentiamo il cambiamento che viene, “l’accelerazione dell’avidità” (p.60).

Insomma si può avere il sospetto che Sontag adatti l’interpretazione della fotografia europea e americana agli stereotipi storico-sociali che si sono già applicati al carattere presunto delle due entità geofisiche. Questo senza escludere che ci possa essere un fondo di verità. Il procedimento è in gran parte tautologico: la visione suscita certe reazioni emotive (in questo caso a Sontag), e tali emozioni vengono identificate con le intenzioni del fotografo, talvolta per ammirarlo, talaltra, come in questo caso, per farne il capro espiatorio dei propri sbalzi d’umore. Questo processo forse è inevitabile, ma occorrerebbe anche applicare un po’ di teoria della ricezione, con eventuali sondaggi tra gli osservatori delle fotografie e ricavarne più umilmente degli insegnamenti documentati. 

In una panoramica che rammenta quelle satire menippee come L’anatomia della malinconia, 1621, di Robert Burton, Sontag, che infatti intitola questo saggio: “Oggetti melanconici”, paragona la fotografia, o meglio le mostre e i libri di fotografie anche a quel tipo di arte contemporanea che usa qualsiasi materiale assemblabile, non esclusi rifiuti e immondizie, per fare installazioni di accumuli vari, perché le fotografie sarebbero appunto relitti, reperti, scarti, oggetti trovati, ciarpame. Non si tratta solo di fotografie dei rifiuti, bensì sono le fotografie stesse, di qualsiasi oggetto, che sono assimilate ai rifiuti, perché “le società opulente, dissipatrici e irrequiete” (p. 60), implosioni di futuro e morte, lasciano questo tipo di resti, residui, avanzi, in una frase: cultura di massa in luogo di arte e storia. E occorre anche dire che non è sempre chiaro se la fotografia documenti il disgusto che è nelle cose e nella società, o se sia il mondo che di fatto viene imbalsamato dalla funzione cimiteriale della fotografia. 

20 sett 13 125Emporio Porpora, Warhol a Milano, 2013

Ma la fotografia è usabile in tutti i modi per la sua stessa strumentalità, che abbiamo più volte ribadito. Sontag cita un libro in cui i ritratti di personaggi famosi da bambini sono raccolti in ordine alfabetico, così che per esempio l’osservatore può ammirare la foto di Stalin bambino accanto a quella di Gertrud Stein, quella di Elvis Presley accanto a quella di Proust. Ed essendo bambini sono ancora tutti innocenti dei crimini che poi compiranno o dei capolavori che poi scriveranno. 

Oppure cita Wisconsin Death Trip, 1973, di Michael Lesy, un insolito collage di fotografie e titoli di giornali che non hanno rapporto tra di loro, se non per il fatto che si riferiscono a persone della stessa contea rurale vissute nello stesso periodo, tra il 1890 e il 1910. È un periodo di terribile depressione economica, in cui i giornali documentavano una desolante sequela di suicidi, omicidi, casi di follia improvvisa, miseria e disperazione, che richiama qualcosa dell’attuale periodo di depressione economica e psicologica che stiamo vivendo in Italia.

Si capisce a questo punto che il termine “surrealismo”, applicato da Sontag in senso negativo a tutto ciò che lei non apprezza o detesta, significa sostanzialmente: distorto, sbagliato, deformante, caricaturale. In un eccesso di pessimismo, tutta la realtà che lei considera sembra contaminata da questa malattia, che la fotografia per la sua oggettività, più di qualsiasi altro mezzo, sembra poter dimostrare in modo incontrovertibile.     

Di volta in volta Sontag definisce surrealismo svariate cose e circostanze. In ordine:
le fotografie dei quartieri cittadini non più esistenti e quindi surrealismo significherebbe visione del passato, il tempo perduto;
ogni frammento di estraneità, alienazione, di tutto ciò che costituisce l’Altro da noi;
la non intenzionalità, e quindi casualità incidentale, degli effetti fotografici, che sono il risultato di un meccanismo;
la disaffezione classista della borghesia per le classi inferiori e la povertà;
la curiosità da flaneur alla Baudelaire per la superficialità della vita moderna, o una sorta di persecuzione e cattura poliziesca di aspetti delittuosi della vita metropolitana;
l’immagine resa pittoresca della miseria;
l’indifferenza uniforme con cui si fotografa tutto, da Mussolini al Papa buono.

Così tutta la fotografia sembra colpevole di surrealismo, quando è indifferente e quando è compassionevole, quando documenta il passato o il divenire in corso, quando apre la strada al turismo, che poi diventa distruttivo; quando è moralista e quando è incosciente; quando accumula reperti a caso e quando documenta la disperazione della depressione economica.

Infine una profonda sensibilità surrealista di questo tipo, cioè da collezionista di tutto, viene attribuita a Benjamin. A prova di ciò indica la sua predilezione per la raccolta e il collage di citazioni. Questo si può collegare alle sue precedenti considerazioni sul fatto che la fotografia è nominalistica, frammentaria e non collegabile in un sistema sintattico, per cui il collezionismo è un repertorio, ma non un codice. “…è a-sistematico, anzi antisistematico”. Anzi gli interventi del collezionista per Sontag sono “distruttivi”, ma anche impegnati “in una pia opera di salvataggio”, perché “il corso della storia moderna ha distrutto le tradizioni e disperso le totalità dei viventi” (p. 67). “Ma rinnovare il vecchio mondo non è possibile, men che meno con le citazioni, ed è questo l’aspetto melanconico e donchisciottesco della disciplina fotografica” (p. 68).

Il coacervo fenomenologico, che Sontag imputa al surrealismo e alla fotografia come suo mezzo principe, viene attribuito alla contraddittoria complessità della visione politica e filosofica del sempiterno Walter Benjamin. Tale contraddittoria complessità viene sintetizzata da Sontag in un neologismo ossimorico e paradossale: “decreazione”. Potremmo ingegnarci a interpretare “decreazione” come un’azione che allo stesso tempo crea e distrugge, non perché distrugga il passato e crei il futuro, ma perché distrugge ciò che conserva, nel senso che lo sottrae al contesto capace di renderlo significativo. E a parere della Sontag questo sarebbe il modo di agire del collezionista.

I paradossi però hanno sempre una chiave in grado di demistificare la contraddizione che contengono, contraddizione che però ha successo perché ha effetti spettacolari. Qual è l’inganno spettacolare e creativo della “decreazione” fotografica? In realtà la fotografia conserva ciò che non essa, ma il tempo, ha distrutto, e la fotografia non ha conservato, ma semplicemente ridotto e spostato su un altro piano, quello della visibilità immaginale. Inoltre tutto il “reale” non ha affatto lo stesso valore, neanche per la fotografia. È la falsa democraticizzazione della postmodernità che non sa o non vuole (ma solo in teoria, ovvero soltanto nell’arte) distinguere e discriminare i valori. L’arte postmodernista accetta tutto perché vorrebbe essere ugualitaria, e la fotografia è il mezzo più economico e il modo più rapido di assemblare il minimalismo più irrilevante e casuale. In questo processo si scambia la ratio del culto della rovina, neoclassico e romantico, con il gusto trash dei rifiuti e delle macerie.

Il culto della rovina rendeva antica la realtà, mentre i cumuli di rifiuti delle istallazioni attuali vengono rapidamente disinstallate dopo l’esibizione, o sopravvivono, coerentemente, solo nella documentazione fotografica. Il motto superstite non è “Et in arcadia ego” con cui la morte segnalava la sua presenza anche nell’allegoria dell’Eden ricreato, ma ogni cosa è inutilmente illuminata/decreata dalla fotografia perché vi siamo assuefatti.
Leonardo Terzo

 

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