Consumismo, pubblicità, ideologia

Consumismo e ideologiaLeonardo Terzo, Consumismo e ideologia, 2015

Il consumismo può essere considerato l’ideologia dominante nella contemporaneità. Esso consiste nel fare del tipo e della quantità di consumi a cui si accede il senso e il valore della propria vita. Ciò ha una dimensione economica, che dipende dallo sviluppo dei sistemi di produzione, in cui, con la seconda rivoluzione industriale, si instaura una cosiddetta “economia dell’offerta”. Cioè la capacità di produzione di beni supera costantemente le necessità dei consumi della popolazione dell’epoca, che perciò vanno promossi e incrementati tramite la pubblicità.

L’aumento della produzione ha un aspetto progressivo che alza il tenore di vita, la rende più agevole e meno faticosa, per esempio con gli elettrodomestici, che inoltre rendono più igienica la manutenzione delle abitazioni e di ogni altro luogo. Gli elettrodomestici, come esempio tipico, all’inizio della loro diffusione, furono considerati prodotti superflui, per fare ciò che prima si riteneva ovvio eseguire fisicamente.

Come questo esempio, tanti altri miglioramenti della vita quotidiana delle persone, prima delle invenzioni opportune, vengono considerati non necessari, ma dopo l’adozione di fatto non si riesce più a farne a meno.

L’esempio presente è il cellulare e gli smart gadget di ogni tipo, sempre nuovi, che instaurano comportamenti abitudinari prima impensati e ora “sentiti” come indispensabili. Il capostipite di questi passaggi di civiltà si può far risalire alla ruota o al fuoco, o al passaggio da un’economia nomade della raccolta ad un’economia stanziale agricola. Oggi la dimenticanza del cellulare produce addirittura i sintomi di una nuova malattia, denominata “nomobite” (da “no-mobile”, cioè “senza collegamento mobile”), che consiste nell’ansia prodotta dal non avere il cellulare in tasca.

Ciò non toglie che vi siano consumi inutili o addirittura dannosi, come le droghe o le slot-machine. Ma ciò che è dannoso o inutile non è il consumo delle cose, ma il tipo di cose che si consumano. In linea di principio avere a disposizione una maggior quantità di scelte è positivo.

Lo stesso vale per la pubblicità. Essa è una comunicazione, e come tale ha la sua utilità propria. In senso positivo è opportuno e necessario mettere a conoscenza le persone di come possano migliorare la loro vita con le nuove invenzioni, risparmiando tempo, che diventa tempo libero da dedicare ad altre scelte. Diventa però dannosa quando non è più una comunicazione veritiera ed utile, ma falsa e intenzionalmente ingannevole. Purtroppo la distinzione tra informazione e inganno è quasi impossibile, perché è una distinzione che non interessa ai produttori, che riescono a farsi assolvere perfino quando mentono sui gas di scarico delle auto, o sull’amianto distribuito ovunque nelle costruzioni. O sull’uranio impoverito che uccide i militari costretti a maneggiarlo a loro insaputa.

Del resto se il consumismo è l’ideologia della contemporaneità, bisogna ricordare che il termine “ideologia”, per quanto interpretato in modi diversi, positivi o negativi, emerge, col significato di sistema di valori, in epoca di liberismo e di rivoluzione borghese, quando prende il posto del tipo di ideologie precedenti, denominate religioni. Le religioni sussistono, ma coloro che le prendono sul serio e le applicano come tali sono considerati componenti di comunità retrograde, oscurantiste e spesso assassine.

Ma il consumismo è imputato soprattutto di far identificare le persone con valori mercantili invece che con valori propriamente umani. Quali sono i valori mercantili non umani? Per esempio la realizzazione di un profitto con ogni mezzo, per esempio a danno di contraenti a cui si nasconde il reale rischio di una transazione finanziaria, come è avvenuto attualmente con alcune banche italiane.

Questo tipo di truffe è considerato con leggerezza da quelle società dove domina la corruzione generalizzata della politica, come in Italia, dove i detentori del potere sono o diventano prima o poi complici che si avvantaggiano di questo stato di cose. Più seriamente queste anomalie sono considerate e punite con carcere vero in paesi come gli Stati Uniti, dove pure domina un’ideologia che possiamo considerare consumistica.

Ma l’accusa più inquietante e sottile è quella che riguarda la sovrapposizione identificativa tra valore umano e valore mercantile, che propriamente appartiene al funzionamento sociale della comunicazione identitaria. Marx l’ha chiamata “feticismo delle merci”, intendendolo come l’irrazionale attribuzione alle merci di aspetti e qualità che sono invece propriamente umane. La cosa è sempre valida, ma funziona più spesso al contrario: sono le persone che aspirano ad appropriarsi di qualità che la comunità attribuisce alle merci.

Questo perché appunto gli uomini non vivono su isole deserte, bensì in comunità dove ogni cosa, oltre ad avere una funzione specifica, è comunicazione diretta o indiretta. A partire dall’aspetto fisico, fino all’adozione di un tatuaggio o di un piercing, passando dal vestito alla casa, al colore della pelle o alla scelta e alla pronuncia delle parole.

Diceva decenni fa, quando stavano diventando di moda i jeans, un intellettuale che pensava per questo di essere anticonformista: “Io non mi definisco per il fatto di portare o no la piega dei pantaloni”. Ma sia che uno si definisca o no per questo, altri certamente lo definiranno in un modo o nell’altro anche per questo. Ora invece tutti sappiamo che siamo definiti e identificati anche per questo. I jeans o la cravatta, l’orecchino o la pronuncia delle parole, sono informazioni che l’ideologia del consumismo stabilisce per noi, ormai non sempre a nostra insaputa.

Non tutte le cose che consumiamo hanno però lo stesso valore informativo. Bourdieu per esempio riteneva che vedere la casa di una persona è un’informazione più sicura di quella che ci dà vedere la sua automobile o i suoi occhiali.

La domanda finale però è: l’informazione data dai nostri consumi riguarda davvero i valori umani? Certamente i nostri consumi danno delle informazioni su alcuni nostri valori, ma sono davvero valori umani? O per lo meno: sono i valori umani più importanti? O ci sono esseri umani che hanno soltanto i valori espressi dai loro consumi visibili, mentre ci sono altri esseri umani che hanno valori che non si possono leggere nei consumi? Ma questo alla pubblicità non interessa, perché il suo scopo è raggiungere solo il primo tipo di esseri umani. Raggiungere gli altri sarebbe comunque antieconomico.

 

 

 

 

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