Momenti di esticizzazione della vita.

Minimalismi e decentramenti, fine corridoio con porta 28 dic12Leonardo Terzo, Minimalismi e decentramenti: fine corridoio con porta, 28 dicembre 2012

Il postmodernismo comporta un processo di de-monopolizzazione delle gerarchie simboliche e l’apertura a mercati più ampi per i beni culturali, una rivoluzione dei canoni, ma un persistere dello status dei detentori del capitale culturale. Tale ampliamento del mercato offre infatti agli intellettuali e interpreti nuove opportunità di svolgere un proficuo ruolo di articolazione e orientamento delle nuove esperienze.

Tra i caratteri del postmodernismo, oltre all’intreccio giocoso dei codici e ad una generale promiscuità degli stili, è evidente la tendenza ad abolire il confine tra arte e vita quotidiana. Così come Baudelaire notava le nuove esperienze offerte dalla modernità, occorre cogliere i mutamenti postmoderni dell’esperienza e dei modi della significazione, che comportano l’esteticizzazione della vita, la trasformazione della realtà in immagini, la perdita del senso della storia, la frammentazione del tempo in molteplici istanti di forte intensità percettiva e mentale nel presente.

Tali caratteri sono espressi con varie formule, quali “fluttuare dei significanti”, “iperrealtà”, “sovraccarico sensoriale”, “società dei simulacri”, che sono applicate ad una cultura dei media e dei consumi, tipica della vita metropolitana e dell’urbanistica contemporanea. Un’eguale giocosa commistione di tratti diversi di stili di vita si riscontra nei comportamenti quotidiani dei giovani che stazionano in quei “non luoghi” che sono gli spazi urbani postmoderni. Questi comportamenti (tribali) hanno genealogie recuperabili a partire dalle pose romantiche a quelle della bohème, da quelle delle varie generazioni della musica rock a tutte le sottoculture giovanili successive.

Ci sono tre modi di esteticizzazione della vita contemporanea. Primo: quegli atteggiamenti, ricorrenti nelle avanguardie artistiche, che sboccano nel Dada, ripresi dal postmodernismo degli Anni Sessanta, tendente a togliere l’aura all’opera d’arte e a togliere l’opera d’arte dal museo. Ne consegue che l’arte è distribuita ovunque e qualsiasi detrito della produzione di massa e delle merci di consumo può diventare arte, vedi per esempio la pop-art. Un altro fenomeno è l’anti-opera, cioè le performance come gli happening che non possono essere museificati. Inoltre un altro aspetto della diffusione quotidiana dell’esperienza estetica si può individuare nel fatto che molte tecniche delle avanguardie sono state adottate dalla pubblicità e dalla comunicazione di massa.

In secondo luogo è la vita che diventa arte. Per esempio il Bloomsbury Group teorizzava che la vita doveva essere dedicata al piacere estetico, e precedentemente si può risalire al decadentismo di Walter Pater e Oscar Wilde, il quale ultimo teorizzava che il vero esteta si realizza in molteplici curiosità e sensazioni. Sono forme di dandysmo, un fenomeno che a sua volta risale a Lord Brummel all’inizio dell’Ottocento, il quale teorizzava una superiorità sociale sulle masse dimostrata da uno stile di vita esemplare, eroicamente volto a perseguire l’originalità in ogni comportamento. L’originalità diventa così uno dei requisiti sia dell’arte sia delle controculture artistiche del decadentismo. Tutto ciò trapassa paradossalmente nelle sottoculture della società dei consumi.

Il terzo aspetto riguarda il rapido fluire delle immagini che permea la vita contemporanea. Questo si collega alla teorizzazione di Marx quando, nel primo libro del Capitale, spiega il cosiddetto “feticismo delle merci”. Feticismo, in sostanza e in questo caso, vuol dire credere che in una cosa siano presenti qualità di un’altra cosa o di un’altra situazione e più specificamente siano presenti delle qualità umane. Il feticcio diviene così dotato di un potere, illusorio, ma efficace. Il feticismo delle merci si ricollega anche alla “reificazione” o alla “oggettivazione” in senso negativo, cioè al trattamento di qualcosa di umano come se fosse una cosa e la considerazione delle cose come se avessero un potere che invece è umano.

Il feticismo, da un punto di vista funzionale, si ha quando le cose assumono un significato e un valore che va oltre il loro uso. Un vestito non serve più a ripararsi dal freddo, ma diventa un fatto significativo, per il suo taglio, la sua marca, la collocazione sociale che attribuisce a chi lo indossa. Perciò le merci diventano anche segno, cioè immagine, e attraverso la manipolazione commerciale delle immagini, operata dalla pubblicità, dalla spettacolarità del paesaggio urbano e dai mezzi di comunicazione di massa, verifichiamo una costante manipolazione dei desideri umani e un trasporto del consumatore in un mondo fantastico che de-realizza ed estetizza la realtà. Questo processo, che porta in primo piano il vissuto estetico del rapporto con le cose, è di solito considerato negativamente, anche se non manca chi, come Marcuse o i situazionisti o altri, vedono nell’esteticizzazione della vita le potenzialità di rivoluzioni propriamente culturali e una possibilità di liberazione dalle leggi del profitto. Vi è infatti una connessione problematica tra l’esteticizzazione consumistica della vita e quella delle cosiddette controculture, collegabili al secondo tipo di esteticizzazione.

Bisogna ricordare che nel segno il rapporto tra significante e significato è arbitrario e il significato è prodotto dalla posizione del segno nel sistema di segni che è la lingua; ma egualmente arbitrario è il sistema dei significati che categorizza il mondo reale. Perciò quando la merce si fa segno, il suo significato è dato non dal suo rapporto col mondo reale (di cui la cosa ora fa parte in modo ibrido) ma dal sistema culturale costruito dall’immaginario della comunicazione.

Si crea così secondo Baudrillard quella iperrealtà in cui immagini e cose si confondono, realtà e finzione non sono più distinguibili, e l’artificio stende un velo estetico su tutto. E nel momento in cui l’arte non si distingue dalla realtà, perde la sua capacità di dire qualcosa sulla realtà da un punto di vista distaccato. Così pure la realtà non è più distinguibile dalla sua immagine e diventa un simulacro essa stessa, perdendo la sua qualità referenziale. I segni e ancor più i segni-oggetti non sono più riferibili ad oggetti del mondo reale, perché questi ultimi sono stati risucchiati nel sistema immaginario della finzione comunicativa.

In questo processo, grande importanza ha l’aspetto visivo dell’immagine, ciò che la semiotica chiama segno iconico. Questo perché la comunicazione visiva favorisce l’immersione dello spettatore in una dimensione sensibile, più vicina agli istinti, alle sensazioni, al desiderio, all’inconscio, che non la parola, che invece favorisce la coscienza e l’elaborazione razionale e intellettuale dei concetti. L’arte è appunto quella produzione di oggetti o messaggi che uniscono sensibile e intelligibile, ma la storia dell’estetica occidentale ha finora privilegiato la dimensione intellettuale. Questo fino a che la modernità, che ha dato luogo alla società dei mass media multimediali come il cinema e la televisione e alla società dei consumi fondata sulla pubblicità e lo spettacolo, non ha contrapposto all’intellettualismo elitario modernista, la fantasmagoria del mondo dei sogni consumistico, che tende a poeticizzare artificiosamente ogni banalità della vita quotidiana. Questa fantasmagoria, come sappiamo ha affascinato Baudelaire e Benjamin ed è stata adottata dal postmodernismo.

L’ambiente, inteso come ethos, che permette queste contrapposizioni e ibridazioni è, come si sa, la metropoli moderna che, come aggregato di masse di consumatori, è lo scenario del passaggio dalla società industriale a quella postindustriale, dove appunto i servizi e i beni simbolici svolgono quella funzione trainante un tempo svolta dall’industria pesante dell’energia, cioè dal carbone, dall’acciaio e dalle macchine. Questo è il momento in cui la realtà comincia a smaterializzarsi, e che fa dire a Baudrillard che il rapporto fra struttura e sovrastruttura, individuato da Marx, si è capovolto e che la vera base strutturale dell’economia è la cultura, intesa come mondo delle immagini che determina il mondo delle cose.

In questa situazione le élite intellettuali moderniste reagiscono alla massificazione con la sofisticazione delle poetiche, e nello stesso tempo cercano di cogliere, rielaborare ed esprimere le nuove esperienze, le nuove sensazioni prodotte dalla nuova situazione sociale, per lo più criticandola, ma in parte venendone irrimediabilmente coinvolti. Vedi il futurismo e il funzionalismo dell’architettura.

L’accettazione della nuova condizione e il rifiuto dell’elitarismo modernista è ciò che caratterizza il postmodernismo, che dal punto di vista urbanistico comporta l’elevazione spropositata dei valori commerciali del centro delle metropoli e una centrifugazione delle masse verso l’esterno, in una nuova dimensione architettonica di simulazione ambientale spettacolare, funzionale al primato dell’immaginario e della finzione, vale a dire i nuovi quartieri attorno ai centri commerciali o ai parchi tematici o ai centri alberghieri o culturali.

Nello stesso tempo le vecchie istituzioni elitarie della cultura alta, come i musei, si aprono alle masse, diventano mercati di gadget e riproduzioni; cambiano funzione, accostando alla custodia del passato il compito di creare eventi culturali sotto forma di mostre tematiche, accostamenti agonistici (vedi Manet/Velasquez e Matisse/Picasso) spettacolari, dove il pubblico non va per conoscere e ragionare sulla storia o per apprendere delle gerarchie canoniche, ma per fare un’esperienza che è indice di nuove pedagogie culturali.

Questo perché anche i modi di intendere e consumare l’arte mutano nella storia. Intendere la visita alle nuove mostre come un’esperienza, per esempio, significa cambiare atteggiamento rispetto a quello che aveva sempre contraddistinto l’intenditore d’arte a partire dalle idee estetiche formulate dalla Critica del giudizio di Kant, dove la fruizione estetica era soprattutto un’osservazione distaccata e disinteressata di carattere contemplativo e cognitivo, che trascendeva l’occasione e la materia per cogliere la perfezione formale e il suo significato. Ora invece vediamo una fruizione che tende a recedere dall’atteggiamento distaccato per immergersi nell’oggetto osservato.

D’altro lato l’esperienza degli artisti testimonia che il creatore di opere d’arte, nel suo lavoro, oscilla e passa spesso da un atteggiamento all’altro: in alcuni momenti di creatività si sente posseduto dall’istinto, in altri raggiunge una lucidità cognitiva dei suoi compiti e delle sue azioni. Infine Bourdieu ricorda che l’arte ha avuto una fruizione per così dire kantiana di distacco cognitivo e contemplativo, e di coltivazione del gusto come senso distintivo, a livello di cultura alta, ma anche una fruizione più sensoriale, immediata e di godimento fisico della cultura popolare.

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