Pierre Bourdieu e le radici sociali dell’arte.

nuo cnio gbdLeonardo Terzo, Sguardi, 2008

Nel saggio “La genesi storica dell’estetica pura” (in Le regole dell’arte, Il Saggiatore, Milano 2003, Éditions du Seuil, Paris, 1992, 1998) Pierre Bourdieu se la prende con tutti i teorici dell’autonomia dell’arte, perché ne cercano quella che essi definiscono l’essenza, di carattere peculiarmente formale e non sociale. Egli invece sostiene che la peculiarità anche formale dell’arte non è che il risultato delle scelte di elitarismo distintivo che le classi dominanti attuano per affermare e giustificare il proprio dominio e la propria superiorità culturale ed economica. La teoria della forma estetica “pura” non avrebbe una funzione propria, se non quella di nascondere la vera funzione distintiva delle classi sociali.

La superiorità culturale verrebbe esibita per affermare e giustificare il potere politico. Bourdieu confonde il formalismo con una scelta di politica culturale, per mascherare le pratiche economiche che ne sarebbero l’origine e la vera essenza. La bellezza sarebbe la maschera del potere. Invece di dire io comando in ambito politico, economico e produttivo, i detentori del potere nasconderebbero questo atteggiamento nel “gusto” e nel potere di stabilire i modelli estetici da fruire, apprezzare e celebrare.

La catena dal potere economico e politico al piacere della bellezza fruibile, e quindi il privilegio di stabilire cosa è bello (o di appropriarsene anche se prodotto altrove da altri ceti: vedi la fortuna postuma di Van Gogh), è innegabile. Tuttavia dove, secondo me, Bourdieu sbaglia, sta nel fatto di reperire l’origine dei criteri di bellezza nel possesso del potere pratico, come se le scelte e le decisioni formali fossero irrilevanti, e quindi inesistenti dal punto di vista dell’efficacia creativa e comunicativa.

In particolare si scaglia contro la categoria estetica in sé, per lui mistificante dei veri motivi delle scelte formali. Gli “esteti” farebbero credere che esiste un valore formale nei costrutti artistici, che invece sarebbe solo ingannevole decisione del potere politico di imporre le proprie distinzioni elitarie.

A fini esplicativi, io uso sempre questo esempio, paragonando i film di Antonioni ai film di Pierino con Alvaro Vitali. I primi sono prodotti di un gusto elitario, sofisticato e formalisticamente essenziale, mentre i secondi inclinano intenzionalmente al grottesco elementare e volgare. Tuttavia entrambi forniscono ai rispettivi fruitori un modello di bellezza per i loro gusti, in una forma adeguata ai contenuti. Entrambi soddisfano, a livelli diversi, una richiesta di tipo estetico, propriamente elaborata secondo criteri di invenzione formale. La sua funzione propria e quindi a suo modo “pura” esiste, e consiste nel fornire un esempio di guida creativa all’attività umana a contatto con le forme concrete materiali e sociali del mondo.

L’estetica, quindi, non è una patina superficiale mistificante, che ricopre biechi e banali bisogni economici, inventata per ingannare gli sprovveduti e pavoneggiarsi nell’ambito della propria classe, ma un insegnamento sulle possibili soluzioni propriamente formali dell’agire nel mondo.