Daily Aesthetics, 20. 8. 2016. Dall’estetica alla sociologia dell’arte, alla metodologia antropologica, all’analisi di mercato.

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Leonardo Terzo, Grande Minimalismo, 2016

Partirò da un particolare minore, sebbene specifico: come l’arte comunica le idee in termini formali.

Nelle arti visive tratti formali, come per esempio il contrasto o la similarità dei colori, indicano ovviamente l’idea di conflitto o di accordo. Per esempio il contrasto tra bianco e nero oppure l’accordo tra bianco e grigio chiaro o nero e grigio scuro, e altre similarità e contrasti fra tutti i colori. Simili moduli sono reperibili anche nelle forme geometriche o nel trattamento di linee e superfici, sia nel figurativo che nell’astratto.

Quindi l’immagine rinvia ad atteggiamenti se non addirittura alle idee. Inoltre si stabiliscono, anche nelle forme, delle tradizioni o consuetudini, che poi prevalgono o sono rare, in determinati contesti stilistici e in determinati contesti sociali. La ripetizione e la consuetudine, per il fatto di essere ricorrenze, implicano un’estensione temporale e/o spaziale che avranno collocazioni e riferimenti storici e sociali.

Questo è un riferimento di cui si occupa la sociologia dell’attività artistica, che a sua volta ha aspetti più sociali, come per esempio il mercato delle opere, e aspetti più formali, come il passaggio dal figurativo all’astratto.

La sociologia considera l’arte in una prospettiva esogena, come emanazione dei processi della società e non per il significato intrinseco che vogliono avere gli stili, che sarebbe la prospettiva estetica. Ma la sociologia funziona anche quando studia l’evolversi delle classificazioni delle forme. Qui per forme intendo lo specifico artistico, quindi anche il senso del contenuto, figurativo o meno.

Questa considerazione può poi rivolgersi anche all’evoluzione del gusto, non per dare un valore estetico alle opere e agli stili, ma per capire come ha funzionato il modo in cui questo valore è stato dato e viene dato da chi lo dà, che poi infatti sono gli elementi della società: classi, corporazioni, o individui.

In effetti ci sono vari compiti della sociologia dell’arte. Per esempio:

  1. a) classificare gli stili e metterli in relazione alle varie situazioni e condizioni sociali, sia per un intento dichiarato degli autori e degli interpreti, sia per l’evolversi oggettivo delle poetiche;
  2. b) individuare la ragion d’essere degli stili secondo le intenzioni estetiche e le realizzazioni degli autori;
  3. c) descrivere gli stili da un punto di vista esclusivamente formale, prima ancora di collegarli a qualsiasi cosa al di fuori delle opere stesse;
  4. d) classificarli alla ricezione in epoche varie e successive, come storia della fortuna dei generi o delle singole opere.

Le ragioni estetiche sono riflessioni filosofiche, intese a individuare l’essenza dell’attività artistica creativa, perciò si fondano su un’analisi iniziale di ciò che è inteso come arte nella tradizione e nella contemporaneità del filosofo, il quale successivamente cerca di applicarle e adattarle alle arti e agli stili successivi.

Le arti visive hanno visto vari tipi di classificazione, per esempio la distinzione per livelli di cultura tra arti elitarie e arti di massa. Altre distinzioni sfuggono spesso alla classificazione, per esempio tra arti pure e arti applicate. Un errore che si ripete è la discussione se includere o no certi generi, per esempio i videogiochi, fra le arti, mentre la problematica svanisce se si distinguono le arti pure da quelle applicate, a cui i videogiochi appartengono di diritto.

Altro errore è considerare le arti sulla base del giudizio di valore: solo quelle apprezzate sono considerate arte, mentre da un punto di vista descrittivo tutte le opere sono arte anche se non riuscite, o meglio anche se non apprezzate. Si potrebbe persino sostenere che la rilevanza sociale dei dilettanti è più importante di quella dei professionisti. Spesso gli artisti passano da una categoria all’altra, l’esempio classico è Van Gogh.

Anche fra le opere di un artista ci sono similarità, ripetizioni e casi unici. L’imitazione e i falsi sono esempi in contraddizione con la mistica della creatività. Anche fuori dall’arte l’individualità dell’individuo ha comunque sia l’originalità che la condivisione coi membri della comunità e al limite dell’umanità intera.

Ci sono poi arti collettive come il cinema che vengono attribuite ad un unico autore, che però può essere diverso nei diversi ambienti: in Europa l’autore è il regista; in America l’autore è il produttore.

La sociologia ha a che fare con tre livelli: l’autore, l’opera e le istituzioni che ne promuovono l’esistenza. L’apprezzamento, che coincide con l’entrare in essere dall’opera, deriva dalla sovrapposizione dei tre livelli, per cui il senso e il valore intrinseco della creazione esiste solo quando il contesto lo permette. A questo punto i sociologhi attribuiscono il valore al contesto mentre i filosofi e i critici lo attribuiscono all’unicità della creazione.

Un ravvicinamento dei due atteggiamenti si attua con la storia del gusto e della fortuna alla ricezione. Lo studio del contesto è ovviamente produttivo, mentre sull’unicità creativa teoricamente ci sarebbe meno da spiegare. Ma questo vale anche e proprio per i sociologi, le cui spiegazioni spiegano la genericità e non l’unicità.

Quindi anche la fruizione ha una dimensione generica e una specifica. Il compito del critico, interprete e filosofo, diventa allora quello di trasferire l’unicità nella condivisione. In effetti per esempio il cubismo viene capito se lo si interpreta come invenzione del genio che poi viene spiegata dal critico d’arte, la cui interpretazione viene condivisa. Il destino della creatività è di essere capita, condivisa e persino imitata, diventando allo stesso tempo unica e comune.

Questa sarebbe proprio la funzione dell’arte: di mostrare l’inedito, rendendolo comune per tutti i fruitori. Anche quando l’arte era “la Bibbia dei poveri” aveva lo stesso compito di diffondere un sapere, ma il sapere era la tradizione religiosa e non la novità modernista.

Un’interpretazione marxista dell’arte la vede, come tutte le sovrastrutture, come mezzo di imposizione ideologica, volontaria da parte dell’autore, oppure anche inavvertita e suo malgrado, perché l’ideologia ha spesso la caratteristica di non essere percepita come punto di vista parziale e di riuscire ad apparire universale e “naturale”. In effetti questa è anche, sebbene descritta con altri termini, l’opinione di Bourdieu, quando vede il gusto per l’arte come maschera culturale del dominio economico.

Ma il problema non sta nell’imposizione di un punto di vista parziale e dominante, bensì nel fatto di rappresentare un punto di vista, e questo è inevitabile. Caso mai ciò che conta è stabilire dove l’arte attinge per esprimere il suo punto di vista sociale e in ultima analisi politico. Per il sociologo, marxista o meno, lo attinge dal contesto sociale.

In linea di diritto, tuttavia, l’artista è un intellettuale e un cittadino come ogni altro, e quindi ha il diritto, come ognuno, di proporre un punto di vista anche politico coi mezzi che ritiene opportuni. Qui si innesta di nuovo l’opposizione tra giudizio estetico e giudizio sociale e politico. Ma può esserci un giudizio estetico o di qualsiasi altro tipo che non sia permeato di una visione del mondo in cui i rapporti sociali non siano presenti?

L’artista potrebbe inoltre sostenere che il giudizio politico espresso dalla sua opera vuole adombrare un’originalità socio-politica parallela all’originalità della sua invenzione estetica. Allora il sociologo dovrebbe mettere in evidenza questa originalità anche sociale e politica, che l’invenzione estetica è in grado di comunicare o di far intravedere, oltre le idee ricevute a disposizione dei sociologi. Questo per esempio è un orientamento reperibile nella critica, sociologica ed estetica a un tempo, prefigurata da Lucien Goldmann.

Il senso sociale dell’arte è riadattato ad ogni interpretazione. L’interprete analizza l’arte dandole il senso sociale del suo tempo. Le statue greche per noi hanno un senso diverso che per i greci antichi. Ma non trascendono lo spazio e il tempo, bensì rinnovano il loro uso sia estetico che sociale.

Ci sono spiegazioni della cultura come metodo di adattamento all’ambiente, e altre che la vedono legata alle strutture cognitive del pensiero, delle rappresentazioni simboliche e altri campi, in grado di svelare la totalità culturale. Resta che l’arte è uno strumento di comunicazione simbolica che serve simbolicamente a realizzare fini pratici. Di qui deriva la posizione dell’artista nella società.

Gli antropologhi di solito esplorano piccole società con tipi di cultura olistica dove tutto si tiene: religione, politica, economia, arte. ecc. I sociologi invece di solito studiano società più vaste e complesse, eterogenee e moderne, con campi e funzioni separate e specializzate, in cui anche le arti sono differenziate con un sincretismo degli stili.

Nelle società complesse infatti l’arte ha le sue istituzioni, specializzate nel favorire la produzione artistica e nel diffonderla tramite le interpretazioni e le valorizzazioni, che sono il modo in cui l’arte si collega al resto della società. Queste specializzazioni dei metodi interpretativi si pongono come collegamento tra la sociologia tradizionale e le considerazioni estetiche.

Un criterio valutativo è la complessità stessa della comunicazione artistica: invece di “brutto”, si dice: povero, banale, semplicistico. Il relativismo dei giudizi non è totale, e si impone comunque una pluralità di concezioni condivise nelle istituzioni di potere.

Un’applicazione sociologica plausibile per affrontare la dimensione dei giudizi estetici è di esaminare con quali giustificazioni si formulano i giudizi: l’analisi sociologica delle interpretazioni.

I mutamenti dell’arte moderna e contemporanea stanno nella variazione dei mezzi espressivi, prima ancora che degli stili. Il più importante e pionieristico eversore dell’arte tradizionale è ovviamente Duchamp, che infatti non intendeva rinnovare l’arte, ma distruggerla ed eliminarla. Solo che i suoi scherzi sono stati emancipati ad arte, contro le sue intenzioni.

Questo dimostra che il potere dell’arte non è degli artisti, a meno che non siano complici del mercato. Il mercato dell’arte è una sorta di tribù con caratteristiche individuabili coi metodi dell’antropologia, non con quelli della sociologia. La sociologia dell’arte quindi è da ritenersi sorpassata e poco utile. I sociologi e gli studiosi di estetica sono ora sostituiti dagli antropologi e dagli analisti del mercato.

Non è più importante cosa e come si crea un’opera, ma quali aspetti deve avere per essere smerciata. Il laboratorio dell’arte è funzionale e di successo quando è una catena di montaggio a cui contribuisce una schiera di addetti, che produce oggetti finali a cui la ditta appone una firma nota: Hirst, Cattelan, Jeff Koons.

Dell’organizzazione fa parte anche la ricezione, organizzata come schiera dei fruitori acquirenti, in parte per investimento economico, ma anche per riconoscimento come componente di una categoria e di un livello sociale. La critica d’arte perciò si trasforma in analisi di mercato.