La punta del colletto, di Anton Cimelich. Introduzione di L.Terzo

poeta-invisibile-4

Leonardo Terzo, Poet’s Shadow, 1999

Introduzione di Leonardo Terzo

Il racconto è la forma breve delle quattro forme della narrativa in prosa: il romanzo realistico, il romanzo fantastico, il romanzo confessione e l’anatomia o satira menippea. Mentre i primi tre sono abbastanza noti e riconoscibili, l’anatomia o satira menippea lo è molto meno.

Rimando per una trattazione esaustiva dell’argomento all’Anatomia della critica di Northrop Frye. Qui mi limiterò a dire che anatomia significa enciclopedia, ma costruita non in ordine alfabetico, bensì tematico, cioè si sceglie un argomento e si racconta tutto ciò che se ne sa. L’argomento è solo un pretesto per esporre, attraverso collegamenti e associazioni, tutte le conoscenze di un’epoca e di una comunità. Per esempio sono satire menippee il Satyricon di Petronio, I viaggi di Gulliver di Swift, Moby Dick di Melville. Anche l’epica ha lo stesso scopo riepilogativo della conoscenza di un popolo, ma l’anatomia è l’opposto dell’epica, perché invece di celebrare i valori di una società li mette in questione, appunto con un atteggiamento satirico che spiega l’altro nome del genere. Una delle possibili etimologie di satira è infatti “satura” termine culinario che significa: “ripieno”, “pasticcio”, “farcitura”. Racchiudere un intento enciclopedico in una forma breve come il racconto non è facile.  Anton Cimelich, italiano a dispetto del nome, che forse vuole apparentarlo a Jaroslav Hasék, autore del Buon soldato Sc’vèik, riesce in questa difficile impresa. Questo racconto è la prima parte di una struttura episodica aperta a successive accumulazioni. Infatti Cimelich ha scritto anche un secondo episodio, intitolato “La seduta di laurea”, ma preferisce non pubblicarlo per ora, perché contiene riconoscibili riferimenti all’ambiente accademico.

Anton Cimelich

La punta del colletto

Tutto cominciò con la punta sinistra del colletto di una camicia rossa che non voleva stare al suo posto, ma si rialzava, e più volte ero costretto a ripiegarla in giù sulla camicia. Non per niente gli americani hanno inventato i bottoncini. Secondo Malcolm Bradbury, profondo studioso della letteratura americana, il colletto coi bottoncini è uno dei più significativi apporti della cultura d’oltreoceano al progresso della civiltà.

Ora dunque, alle prese con la punta ribelle della mia camicia, continuavo ad abbassarla ogni volta che mi capitava di passare davanti ad una superficie riflettente. Poi improvvisamente capii che potevo usufruire di quella tenace inclinazione della stoffa rossa a sollevare quello spigolo verso la mia mandibola, per farne un tratto della personalità, per rendermi indimenticabile con il minimo sforzo, lo sforzo di accettare la punta sollevata come un segno caratterizzante. Bisognava accettarsi con la punta all’insù.

Non fu facile. Pur dopo aver preso quella decisione, sentivo a volte di non essere veramente io, ero soltanto mascherato da eccentrico, mentre io sono un conformista. Eppure si fa presto a dire eccentrico, si fa presto a dire conformista. Il conformista è chi si conforma, e in teoria i conformisti sono tutti conformi, appunto. Ma i conformisti sono conformisti solo per gli eccentrici. E gli eccentrici sono coloro che sono diversi da tutti gli altri. Ma visti da vicino gli eccentrici sono spesso uguali fra loro, e i conformisti, visti da vicino, sono tutti diversi. Certo solo per sfumature, sfumature che possono cogliere solo gli intenditori di conformisti.

Perciò ora, con quella punta all’insù, mi sentivo allo scoperto, inserito nella massa dei senza regola. Senza regola, poi! Non esageriamo. Però mi sentivo esposto al ludibrio dei passanti, che invece non notavano affatto la mia caratterizzazione anomala. Evidentemente ero esposto solo al ludibrio del conformista annidato in me.

Ma resistetti e mi impegnai a recitare quella parte. Ero l’uomo senza qualità, ovvero l’uomo con la punta all’insù, conscio, come Gregorio Samsa, della sua penosa metamorfosi, eroicamente consapevole come Salvo D’Acquisto della necessità del sacrificio, insensato come Faust nel barattare l’anima pre-moderna del conformismo dogmatico col pugno di ceneri della modernità frammentata e distruttiva. Mi sentivo ingenuamente creativo, come un Picasso atteso dall’imboscata di Duchamp appostato dietro l’orinatoio. Dietro la punta del colletto.

Nessuno infatti ebbe mai il coraggio di chiedermi conto di quella stranezza, nessuno osava chiedermi il senso di quell’atteggiamento inconsueto. Ma io potevo intuire i loro pensieri, i loro interrogativi, i loro stupori, i loro smarrimenti. Sentivo battere tormentosamente il loro cuore colpevole e curioso.

Dapprima, forse la prima volta, qualcuno pensò che mi ero vestito in fretta, che il giorno dopo tutto sarebbe ritornato a posto. Ma la seconda volta qualcuno pensò che stavo diventando trasandato, qualcun altro che stavo invecchiando, che avevo perso lo smalto e l’eleganza, forse persino la lucidità intellettuale. Alcune signore e signorine pensarono che si vedeva la mancanza di una fidanzata fissa nella mia vita. Altri ancora pensarono che fosse un segnale per qualcuno, un nuovo marchio tribale, uno pseudo-orecchino, l’ersatz di un tatuaggio.

I più giovani pensarono per un attimo di imitarmi, ma non erano ancora certi che la punta rialzata fosse una novità, e dubitarono che fosse solo il recupero di un’eleganza avita, per loro incomprensibile, e desistettero interdetti. I più infatti portavano una maglietta o il maglione invece della camicia, ma per un momento considerarono l’idea di comprarsene una.  Si diceva comunque che molti camiciai cominciassero ad esporre in vetrina le camicie con una punta del colletto rialzata, accanto alle bombette color verde bottiglia.

Io li osservavo, mentre loro mi osservavano, facevo finta di niente, mentre loro facevano finta di niente. Una volta mi sembrò che un gruppetto mi si avvicinasse in delegazione come per chiedere conto, per affrontarmi finalmente con una domanda diretta. Ma quando mi feci loro incontro con un sorriso impreparato, che forse a loro sembrò enigmatico, mi salutarono con un cenno e passarono oltre.

Cominciai a capire che l’uomo è l’effetto delle sue scelte. La punta rialzata era solo un fatto materiale, una sconnessione irrilevante nell’ingranaggio sistematico dell’universo in divenire, ma la mia decisione di farne il mio tratto umano aveva trasformato un caso in una necessità, una forma in un senso, le molecole di un tessuto in un significato.

Il problema era: quale significato? L’esitazione che tutti mostravano nel chiederlo era forse dettata dalla paura che io non lo sapessi? O dalla paura che non c’era significato anche nella scelta? O che ce ne fosse troppo? Come dicevano i Beatles “the world is too much with us”? E che l’interdetto della Legge che, secondo Lacan, promuove le pulsioni e i desideri fosse un bluff, demistificato da una punta rialzata?

Anche la religione partecipò alla ridda delle ipotesi. Sentii dire che la setta delle punte rialzate si preparava a chiedere di essere inserita tra gli aventi diritto all’otto per mille. Ma era solo una battuta recitata in un aggiornamento della commedia di Achille Campanile sulle sette sette delle sette meno un quarto. Quel quarto mancante era simboleggiato dalla punta rialzata.

Tuttavia una volta preda degli aggiornamenti ermeneutici delle Scritture, la punta rialzata fu trascinata nelle aberrazioni più grottesche. Perciò i più astuti teologi evitavano il problema, sostenendo giustamente che Adamo non portava camicia e la foglia di fico aveva il preciso compito di stare al suo posto. Altri, probabilmente sudamericani, giunsero a ipotizzare che il rialzarsi della punta era una figura della nuova teologia della liberazione. Le riviste di gossip biblico insinuavano che era per una punta rialzata che Noè aveva maledetto il figlio Cam.

I materialisti, citando Leopardi, sostenevano che nobile natura è quella che a sollevar s’ardisce la punta del colletto incontro al comun fato. I critici culturali celebravano la capacità del dettaglio della storia vestamentaria a farsi forma espressiva di rivolgimenti storici più profondi e significativi. I sostenitori delle culture postcoloniali vedevano nel colletto delle camicie un ennesimo feticcio attraverso il quale l’occidente imponeva i suoi modelli ai popoli dominati. Le femministe erano accanitamente divise tra le correnti storiche, che contestavano l’esibizionismo fallico della punta, e quelle postmoderne, che proclamavano il diritto delle donne a fruire anche loro della vista di ciò che c’è sotto la punta del colletto, senza per questo smettere di sentirsi delle brave ragazze. Ad esse le prime ribattevano che in questo modo non facevano che eroticizzare la propria subordinazione.

Quanto a me, cominciavo ad inorgoglirmi. O a regredire in una esasperazione mistica. Cominciavo a pensare che la punta del colletto che talvolta, quando ripiegavo la testa verso sinistra, mi pungeva la gota, aveva fatto di me il “punto dal signore”, il luogo di un tragitto destinale, dove si essenziava il non nascondimento dell’essere. Mai orgoglio fu più effimero.

Una mattina infatti, rivestendomi, notai che la punta non si era rialzata. Dopo un momento provai a spostarla manualmente, questa volta all’insù, invece che all’ingiù come avevo fatto maniacalmente all’inizio di tutta questa storia. Ma anche stavolta la punta, il colletto e la camicia tutta sembravano avere una volontà propria, una indifferenza forse, che non accettava coercizioni culturali. Il significato cominciava così ad apparire: la punta del colletto era una grande saggezza.