Il formalismo moderno, fino allo strutturalismo e alla semiotica, tende a generalizzare l’applicazione di un linguaggio tecnico, che considera l’arte in termini di specificità operativa. Questo tipo di accostamento non è solo occidentale: per esempio Clifford Geertz (Local Knowledge, Basic Books, New York, 1986. Tr. it. Antropologia interpretativa, Il mulino, Bologna, 1988) lo trova anche nel modo in cui gli aborigeni australiani considerano gli elementi formali dei disegni sul proprio corpo.
Tuttavia egli non ritiene che tutto il potere estetico risieda nei rapporti formali tra suoni, volumi, immagini, temi o gesti. Esiste anche e soprattutto un rapporto con gli altri interessi culturali dell’esperienza umana, perché il senso e il sentimento che un popolo nutre per la vita si esprime in molti altri luoghi e forme: nella religione, nell’etica, nella tecnologia, nel diritto, nella politica, nella scienza, nei divertimenti, nell’organizzazione della vita quotidiana. Un discorso sull’arte che vada oltre il discorso tecnico è appunto quello che pone l’arte in rapporto a tutte queste espressioni culturali e riguarda il modello antropologico a cui tutte partecipano.
Occorre dunque trovare la collocazione dell’arte nel determinato schema di vita di una comunità. L’arte nella Cina classica e negli altipiani della Nuova Guinea non è la stessa cosa. La varietà delle culture si estende anche alle loro espressioni artistiche. Se si crede che l’unico modo di vedere l’arte è quello della propria cultura si finisce per credere che le altre culture non abbiano le arti. E pur discutendone come di ogni altro elemento della vita: come viene usata, chi la possiede, quando viene realizzata, chi la realizza, che ruolo svolge in ogni attività, con che cosa si possa scambiare, come si chiama, quando è cominciata, se ne parla come se non fosse arte.
Perciò l’approccio formalistico, tipico dell’occidente, può rendere talvolta impossibile una comprensione comparata dell’arte nelle varie culture. L’arte così è sotto osservazione, ma non la si vede come tale. Il mezzo artistico è inseparabile dal sentimento della vita che lo anima: è come vedere un discorso come serie di variazioni sintattiche, o un mito come serie di trasformazioni strutturali. Studiare una forma artistica è studiare una sensibilità che è prodotta collettivamente sulla base di tutta l’esistenza sociale, ed è più che un’amplificazione dei piaceri dell’artigianato, e più di quella concezione funzionalista che vede l’arte come meccanismo elaborato per definire e rafforzare i rapporti sociali.
Qualsiasi cosa, e quindi anche l’arte, può aiutare una comunità a funzionare, come anche a distruggersi, ma il rapporto tra arte e vita non è strumentale, bensì semiotico, in quanto le arti materializzano un modo di sperimentare e una particolare struttura mentale dove gli uomini possono osservarli come oggetti. L’unità di forma e contenuto non è una tautologia filosofica, ma un effetto raggiunto, e da spiegare come successo culturale. Ciò si può fare solo connettendo il discorso estetico a tutti gli altri discorsi.
Alcuni obiettano agli antropologi che questo legame è evidente nelle culture primitive, che confondono le aree della loro esperienza, ma non vale per le culture sviluppate dove l’arte è un’attività differenziata che risponde principalmente alle proprie esigenze (il famoso “specifico”). Secondo Geertz ciò è falso e dipende dalla sottovalutazione dello specifico artistico nelle società analfabete, e dalla sopravvalutazione dell’autonomia dell’arte nelle società acculturate.
Il corredo critico o “gusto” con cui un pubblico osserva un quadro è fatto di schemi, categorie, deduzioni, analogie, fornite dalla mente, cioè di capacità interpretative tratte per lo più dall’esperienza generale fatta nella propria comunità. D’altra parte il pittore comunica attraverso la condivisione delle abitudini visive, che sono il corredo culturale del pubblico. Geertz trae alcuni esempi dagli studi di Michael Baxandall sulla pittura italiana. Per esempio lo scopo dei quadri di soggetto religioso del Quattrocento italiano è l’approfondimento della consapevolezza della dimensione spirituale dell’esistenza, per cui i quadri erano inviti visivi alla riflessione sulle verità del cristianesimo.
Però il rapporto non era semplicemente illustrativo e “catechistico”, bensì tale da mettere in moto una reazione personale e approfondita, anche in relazione a tutta la cultura dell’epoca, dalle prediche all’identificazione dei personaggi del mito cristiano, che rinviavano ad una ricca iconologia di fisionomie, gesti, colori, disposizioni spaziali. A questo proposito contribuiva la consuetudine con la danza, intesa principalmente non come gesto ritmico, ma come processione, spettacolo, fatto di assembramento e movimento coreografico, schema e geometria che dava senso alle figure. Questa competenza del pubblico dava al pittore la possibilità di contare sulla comprensione figurativa dei suoi gruppi e dei generi pittorici.
Accanto alla tendenza a concepire la danza e la pittura come schemi di sistemazione dei corpi con un implicito significato, c’è la tendenza generale della società a dare significato al modo di raggrupparsi e disporsi reciproco, sia degli individui sia dei gruppi, nella vita pubblica e privata, cosa che peraltro continua ad esistere ed è ora studiata dalla prossemica o scienza delle distanze. In ogni caso ogni società ha le sue abitudini visive che influiscono sull’interpretazione e comprensione delle situazioni. Ci sono poi tutti i criteri di valutazione delle proporzioni e disposizioni degli oggetti e degli elementi del contesto naturale o urbano. Infine nel Quattrocento c’era il moralismo delle prediche religiose e la retorica dell’oratoria latina. Perciò un quadro antico è una registrazione di attività visive tipiche della propria epoca e della propria società, che si devono apprendere per imparare a leggerlo. Si può dire così che quella di Piero della Francesca è una pittura “valutata”, quella del Beato Angelico è una pittura “predicata”, quella di Botticelli una pittura “danzata”.
L’artista lavora con la capacità del suo pubblico, ovvero della sua società, di esperire e comprendere. Tale capacità è innata e insieme effetto dell’esperienza di vita che si ha in un determinato ambiente, fatto di cose, persone e situazioni. Il senso dell’arte non sta nelle sue tecniche formali, ma nel significato che tali tecniche assumono oltre l’autoriferimento. La scienza estetica dovrebbe fondarsi su una etnografia dei veicoli del significato (segni, simboli, indici, forme, diagrammi, segnali) che spieghi il ruolo che essi svolgono nella società, e per cui la società li tiene vivi. Tale significato è reperibile nell’uso e va studiato come si studiano le altre tecniche e gli altri usi, per esempio le tecniche di irrigazione o le usanze nuziali.
Le opere d’arte non sono tali perché riconoscibili da un innato senso universale della bellezza, ma per le ragioni più varie, che fanno sì che esse siano importanti per quelli che le fanno e le usano. Ciò che accomuna le ragioni più varie che rendono artistiche le opere d’arte sembra il fatto che l’attività artistica voglia dimostrare che il senso (che comprende le idee e le emozioni) possa essere reso visibile, udibile, toccabile, insomma materialmente esperibile coi sensi. L’estetica non deve funzionare come una crittografia che traduca una cifra in un’altra, magari più oscura, ma deve funzionare come una diagnostica che identifichi il significato delle cose per la vita che le circonda, perché l’origine della bellezza è nelle caratteristiche del suo ambiente.
Si può aggiungere come riflessione finale che, se l’estetica occidentale è diventata formalista e poi funzionalista, e si occupa dello specifico delle singole arti in termini di tecniche espressive e poi dei mezzi per individuare le condizioni di produzione delle arti, forse è perché la cultura occidentale ha posto la tecnica e i mezzi di produzione materiale come origine e motore del divenire dei significati e dei valori culturali.
La civiltà è tutt’uno con le condizioni tecniche che la rendono possibile, non ci sono mezzi e fini, né tecniche compositive e opere d’arte da esse prodotte, ma le opere si identificano con le tecniche, i fini sono l’impiego dei mezzi, le forme sono il contenuto, l’uomo è il suo organismo fisiologico e si distingue dall’animale solo nella misura della diversificazione e moltiplicazione delle funzioni cerebrali. Sarebbe appunto questa misura maggiore che lo pone su un gradino dello sviluppo biologico ritenuto, salvo smentita, più alto.
By Leonardo Terzo