Che cos’è la letteratura 2. Poetica e retorica.

Emporio Porpora, Nuvole 2, 2012

2. Poetica e retorica

In via preliminare è anche opportuno il raffronto con la retorica. La retorica si avvicina e si affianca alla poetica, in quanto anch’essa è un uso appropriato dei mezzi della lingua, per esprimere dei significati e ottenere degli effetti specificamente persuasivi. Ma questa vicinanza non è identità. La funzione linguistica dominante della retorica, per quanto possa essere velata e dissimulata, resta la funzione conativa, che mira a promuovere un comportamento dell’interlocutore.

Rispetto alla poetica, la retorica ha fini più immediati, e imperativi più circoscritti, perciò predilige gli usi collaudati della perspicuità comunicativa. Il suo scopo è determinato e predeterminato da un fine estrinseco all’invenzione e alla creatività. Essa sa a priori ciò che vuole ottenere, e ha una maggiore necessità di ottenerlo.

Ciò condiziona anche gli usi esornativi, ovvero estetici, della retoricità, la cui essenza si manifesta nella figura. La figura retorica è sempre uno spostamento, una deviazione o il traslato dell’uso comune, grammaticale, sintattico o semantico, di un termine o di un sintagma, per dare maggior vivacità o maggior chiarezza o maggior forza al discorso. Ma questi scarti funzionano perché ancorati ad una teleologia apologetica che organizza il discorso retorico in modo conseguente al suo scopo. E sia che il discorso sia veritiero, sia che prospetti scientemente informazioni false o non complete, l’argomentazione retorica dissimula la strumentalità esornativa, per definizione indifferente alla verità, ostentando invece un’intenzione informativa. L’informazione infatti affetta un appello alla razionalità e ai sentimenti dell’interlocutore, vale a dire all’utilità pratica e agli attaccamenti affettivi.

Per esempio, quando Menenio Agrippa recita il suo famoso apologo, deve convincere i plebei a tornare a Roma e a collaborare coi patrizi. Nel suo discorso lo Stato è paragonato al corpo umano e le classi sociali agli organi che lo compongono. La similitudine dell’organizzazione dello Stato con un organismo vivente, assimila un fatto culturale, lo Stato appunto, effetto dei rapporti di forza fra le classi, ad un organismo naturale come il corpo, non modificabile, almeno a quel tempo, dalla volontà umana. La persuasività dell’apologo si basa su questo artificio o inganno, che possiamo chiamare appunto “retorico”. Esso ha una finalità logica, prospettando una soluzione di apparente saggezza politica; e una strumentalità emotiva, in questo caso in termini di minaccia, prospettando la disgregazione e la morte dell’organismo statuale. Non ha invece una perspicuità intenzionalmente diretta a godere di tale apparente saggezza come celebrazione dell’artificio. L’artificio convince ma non appaga, anzi costringe i persuasi ad accettare qualcosa che a loro non piace. La sua ingannevole efficacia è logica e pragmatica, non è estetica ed erotica.

Ma il termine retorica ha molteplici significati che esulano dagli intenti puramente persuasivi, per designare invece tutta la gamma degli artifici espressivi, condivisi da tutte le funzioni linguistiche, da quella referenziale a quella estetica. Vi sono stati per esempio periodi della storia letteraria come l’epoca del barocco, in cui la poetica dominante riteneva che, come scrisse Giovan Battista Marino (1569-1625):

È del poeta il fin la maraviglia,
parlo dell’eccellente, non del goffo,
chi non sa far stupir vada alla striglia!

Ovvero un effetto spettacolare, ricercato programmaticamente con una sfarzosa esibizione di figure retoriche. È ovvio inoltre che, all’interno di tale poetica, è comunque possibile distinguere un impiego della retoricità che trascende il solipsismo delle figure e dei tropi, da quello (dei “marinisti”) in cui l’arditezza dei traslati e la stranezza delle antitesi cade infatti nella goffaggine. Ma qui appunto il fine della retorica non è più quello proprio della persuasione, bensì quello del virtuosismo concettistico. La retorica quindi si fa autoriflessiva, perde l’eterogeneità dei fini e sposta lo scopo pragmatico della poesia dalla partecipazione intellettuale ed emotiva (destinata alla “catarsi” di un convincimento) all’ammirazione dell’abilità tecnica (destinata alla  stupefazione dello spettacolo).

La letteratura sembra allontanarsi in questa fase dall’esperienza dei lettori, limita la gamma degli argomenti e dei temi, lavora sulle tecniche, prefigurando sostanzialmente l’autonomia dell’estetica. Ma il concettismo barocco genera anche la poesia metafisica inglese, (denominazione inventata da Samuel Johnson in Lives of the English Poets 1779-81. Fra essi: Chapman, Donne, Herbert, Crashaw, Vaughan) per la quale la retorica non è più, o non solo, semplice esibizione di acrobazie semantiche tra referenze e significati, bensì impiego consapevole di un bagaglio scientifico e filosofico propriamente moderno, coniugato, con rigore intellettuale e con gusto intellettualistico, ad una forte soggettività e passionalità. Qui perciò la retorica si fa sperimentale, la meraviglia si esplicita nel wit, con un’energia discorsiva e raziocinante, satirica o celebrativa, che svaria dai temi teologici a quelli profani, dalla devozione cristiana, non priva di sfumature erotiche, alla spiritualizzazione e canonizzazione degli appetiti carnali.

Rispetto alla retorica persuasiva invece, ciò che la poetica vuole ottenere in un certo senso si sa solo a posteriori, appunto perché è inventiva. Se Pindaro deve scrivere un’ode per esaltare una vittoria olimpica, s’adopera per suscitare l’ammirazione per il vincitore, ma soprattutto per suscitare l’ammirazione della sua ode stessa. Come si è detto, il mezzo della retorica, cioè la persuasività, è la forza logica di una consequenzialità discorsiva, vera o apparente, anche quando il discorso è figurato e si avvale della mozione dei sentimenti. Invece il mezzo della poetica è la celebrazione, vale a dire un’esaltazione rituale che opera e appaga per via di esibizione – ciò che il critico d’arte Cesare Brandi chiamava “astanza” – cioè il fatto di essere presente ai sensi e all’intelletto (vedi Teoria generale della critica, Einaudi, Torino 1974). La celebrazione opera con un effetto di feed-back, cioè trapassa dall’eroe da celebrare al discorso che lo celebra, e viceversa dall’autocelebrazione cerimoniale del canto all’eroe che ne è l’oggetto. Tale fine celebrativo e autocelebrativo in linguistica diventa “l’autoriflessività della funzione estetica”.

 Leonardo Terzo

 

 

 

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