Luogo, non-luogo, logo, no-logo: da Marc Augé a Naomi Klein.

Hic Sunt Group, Autoritratto in non-luogo, 2011

Il concetto di non-luogo di Marc Augé si riferirebbe a quei luoghi di passaggio come aeroporti, stazioni, svincoli autostradali, ecc. dove le persone non vivono sufficientemente per riconoscersi in essi, e di conseguenza questi luoghi non avrebbero identità. La cosa sarebbe aggravata dal fatto che tali luoghi sarebbero uguali in tutto il mondo, ed egualmente indistinti e spersonalizzati.

Questo è vero, ma ovvio, e vale per qualsiasi altro luogo in molte circostanze. Per esempio ci sono strade della mia città in cui non sono mai passato, e se ci passassi mi sarebbero più estranee dell’aeroporto di Linate, dove bene o male ho preso nella mia vita parecchie volte l’aereo, e dove perciò so orientarmi riconoscendo i vari settori e la loro utilità in quelle occasioni in cui li ho utilizzati. La stessa cosa vale ancor di più per quelle stazioni del metrò e delle ferrovie che prendo tutti i giorni per andare al lavoro. Quindi la qualifica di luogo o non-luogo è di necessità soggettiva e legata alla misura delle frequentazioni e non alla tipologia degli usi.

Quanto al fatto che sarebbero uguali in tutto il mondo, neanche questo è vero del tutto. Sono egualmente estranei quelli che lo sono, poiché l’estraneità li assimila nella non riconoscibilità, ma appena li si frequenta un po’ di più si percepisce subito una diversa connotazione: per esempio tra gli aeroporti di Linate, di Heathrow, o di Tokyo, ma anche la diversità tra Linate e Malpensa, o tra Heathrow e Gattwick. Dal confronto appare evidente che ognuno di essi ha una sua identità, per non dire “personalità”.

Non parliamo poi della riconoscibilità dei non-luoghi per coloro che vi lavorano. Come prova, vedi il film La bella di Lodi, 1963, diretto da Mario Missiroli, tratto dal romanzo di Arbasino. Uno dei protagonisti lavora in una stazione di servizio sull’autostrada, e man mano che la storia si svolge lo spettatore diventa familiare con quell’ambiente che all’inizio del film appariva caotico e spaesante.

Ora è strano che proprio un antropologo non capisca che ogni luogo è un non-luogo per chi non lo conosce, e nella misura in cui lo si utilizza o meno, così come ogni popolo lontano è estraneo finché non lo si frequenta. Si potrebbe applicare la stessa de-localizzazione o non-localizzazione alle stanze di un appartamento tra cucina, salotto, corridoio ecc.: da quando ho l’aria condizionata, la mia grande terrazza è diventata un non-luogo: ma se la trasformo in veranda tornerà ad essere un luogo.

Ma il non-luogo sarebbe tale perché non permetterebbe di instaurare relazioni sociali. Questo è un argomento antico, che si può far risalire al concetto di “folla solitaria” della vecchia sociologia (David Riesman, 1950), o addirittura all’idea di “alienazione metropolitana”, già segnalata dai romantici, per esempio da William Wordsworth nel poema The Prelude, 1799, dove lamentava che nelle città moderne si può vivere una vita intera senza conoscere il proprio vicino di casa. I luoghi o non luoghi sono interscambiabili, dunque senza andare alla stazione di posta delle diligenze o sull’autostrada. Anzi le città sorgono proprio dove le strade si incrociano perché da quei non-luoghi sorge la voglia di luogo.

Tuttavia le relazioni sociali hanno anche una dimensione simbolica oltre alla mera utilità pratica. Pratica ed ermeneutica trovano un punto di incontro nella cosiddetta cultura materiale. Infatti secondo Augé, una prova della loro “non località” sarebbe l’uniformità architettonica, indipendente dal contesto. Lo studio della cultura materiale mette in risalto l’incontro tra dimensione utilitaria, che impone la funzionalità delle tecnologie in uso, e la dimensione simbolica, che piega in qualche modo il dominio dell’utilità ad esigenze comunicative.

Questa è in fondo la storia dell’architettura dell’ultimo secolo, tra il funzionalismo spartanamente modernista e il neobarocco postmoderno che, a suo dire, recupera la Storia e il messaggio “culturale”. Perché il funzionalismo, come effetto collaterale, tendeva a sterilizzare la riconoscibilità locale dei “luoghi” nello stile internazionale neutro ed uniforme dei “non-luoghi”.

Ma nel mondo contemporaneo la riconoscibilità è stata intesa in un modo se possibile più spettacolare di quanto l’architettura, spettacolare di per sé, già non implicasse. La comunicazione, resa globale dal world wide web, ha smaterializzato i contatti sociali ed economici, sperequando la necessità dei viaggi materiali delle persone in carne ed ossa a favore delle finalità di svago e di turismo.

In questa prospettiva anche le economie nazionali, locali e metropolitane si sono trasformate in giganteschi apparati per attrarre i visitatori ricchi da tutte le parti del mondo. Nel nuovo orizzonte affaristico fatto di expo, olimpiadi, ed “eventi” di ogni genere, le città si sono adeguate ad una aerodinamicità visiva finalizzata ad essere immediatamente riconoscibile come luogo. Questa tendenza si potrebbe far risalire alla Tour Eiffel, che doveva essere provvisoria per la durata dell’esposizione, ed è diventata un esempio eterno di efficacia pubblicitaria per il mondo. Ora che sempre più ardite tecniche costruttive lo permettono, le città si rifanno il look, sotto forma di skyline, cioè si rifanno il profilo visibile in panorama. Questo profilo panoramico diventa così un logo, cioè un segno distintivo immediatamente identificabile come un marchio di produzione.

Resta incerto il giudizio se le nuove skyline di Sidney, Hong Kong, Kuala Lampur, Chicago, segnalino una cultura e un contesto, che indubbiamente ci sono, oppure al contrario abbiano trasformato questi autentici luoghi in un nuovo tipo di non-luoghi, sulla via di assomigliare tutti ai falsi luoghi di Las Vegas.

Contro la corsa al logo delle mode manifatturiere Naomi Klein aveva, all’inizio del millennio, teorizzato uno stile di vita no-logo, mirante a recuperare  nei consumi la materiale utilità dei prodotti, invece della loro funzione esibizionistica come messaggio. L’indistinto del no-logo, dietro il rifiuto di un’appartenenza culturale, rifiutava di fatto l’appartenenza a un brand. Così quattro concetti si mischiano e in parte si confondono. La mera materialità dei non-luoghi deve acquisire la cultura delle relazioni sociali, ma la cultura delle relazioni sociali, che rendeva “luoghi” i luoghi, si è impoverita e ridotta a mera esibizione del logo. Urgono nuovi modi e tipi di relazioni sociali, interazioni di internet e Piazze Tahrir per fare dei luoghi no-logo.

 Leonardo Terzo

 

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