Emporio Porpora, Both Phoning, 2012
9. Letterarietà e “discorso”: sapere e potere.
Il termine “discorso” ha molti significati, e nel tempo è stato in luogo di molti termini letterari. Per esempio discorso significava: genere, stile di un autore, disciplina, idee o tesi sostenute da una o più persone, ecc. Compare poi in narratologia fra le tre categorie di storia, trama e discorso (in inglese: story, plot, discourse). Il “discorso” è la linearità del testo così come lo leggiamo, parola per parola. Esso si distingue dalla “trama”, che è il riassunto dell’azione narrativa nell’ordine in cui i fatti narrati sono presentati al lettore, con anticipazioni e rimandi. Infine vi è la “storia” che è costituita dagli stessi fatti della trama, ma nell’ordine logico e cronologico in cui sono avvenuti.
Invece per Foucault e per un certo pensiero neo-storicista che ne è influenzato, il “discorso” è semplicemente l’ideologia, intesa come il sistema di concetti attraverso i quali un potere influisce su coloro che li usano e organizzano (“pertinentizzano” è il temine tecnico) il mondo con quel sistema. La cosa fondamentale, che distingue in parte questo modo di intendere l’ideologia o visione del mondo chiamandola “discorso”, è che il potere opera attraverso il linguaggio e i concetti, attraverso il sapere stesso, senza bisogno di coercizione, ma per mezzo di un dominio che si avvicina all’idea di egemonia culturale, ma con connotati opposti, e cioè negativi, rispetto al concetto teorizzato in Italia da Antonio Gramsci.
Foucault definisce “genealogia del sapere” il suo modo di fare storia e, specificamente, storia della cultura. La genealogia del sapere, e dunque delle situazioni ideologiche, ricostruisce il modo in cui il potere diventa sapere. Ma una volta risaliti dal sapere al potere, e dimostrato che tutto il sapere (la verità) è una conseguenza del potere, tale ricostruzione non fornisce di per sé criteri per dimostrare se quel sapere funziona o no e in quali circostanze, né offre quindi motivi per cambiare quel sapere/potere, se non dal punto di vista di un altro potere. Quindi se tutto il sapere è potere e il potere è dovunque, non c’è possibilità di uscire da un’egemonia qualsiasi. Cambiare la forza della verità con la forza del potere non cambia il fatto che si è soggetti a una forza. Anzi questa pseudo-consapevolezza rischia di rendere indistinguibili le diverse fonti del potere. Non si capisce se si tratta di un potere unico e distribuito ovunque e affidato a tutti. Nel qual caso sembrerebbe che tutti abbiano il potere, il che non è vero. Infatti ciò che conta è la differenza dei poteri non il potere in sé.
L’imbarazzo che questa confusione può causare si coglie per esempio nel modo in cui Terry Eagleton (The Function of Criticism, Verso, London 1984) prova a spiegare la funzione della letteratura e della critica nel passaggio dall’egemonia culturale aristocratica a quella borghese, tramite l’attivismo dei periodici di Addison e Steele nel ‘700 inglese, e la formazione della cosiddetta “sfera pubblica” di discussione:
“This, indeed, is the irony of Enlightenment criticism, that while its appeal to standard of universal reason signifies a resistance to absolutism, the critical gesture itself is typically conservative and corrective, revising and adjusting particular phenomena to its implacable model of discourse. Criticism is a reformative apparatus, scourging deviation and repressing the transgressive; yet this juridical technology is deployed in the name of a certain historical emancipation”.
Proprio questa è la situazione ironica della critica illuminista: che mentre il suo appellarsi al criterio della ragione universale è una resistenza all’assolutismo, l’attività critica in sé è propriamente conservatrice e correttiva, perché revisiona e adatta i fenomeni particolari al suo implacabile modello di discorso. La critica è un apparato ri-formativo, che colpisce le deviazioni e reprime le trasgressioni; tuttavia questa tecnologia giurisdizionale è esercitata in nome di una precisa emancipazione storica.
La conclusione da trarre allora è che:
“The sphere of cultural discourse and the realm of social power are closely related, but not homologous: the former cuts across and suspends the distinctions of the latter…”(pp.12-3).
La sfera del discorso culturale e l’ambito del potere sociale sono strettamente correlati, ma non sono omologhi: il primo interferisce e sospende le distinzioni del secondo…
Il linguaggio nasce dall’accordo convenzionale di un’esperienza con un suono vocale, che nella memoria rimane come segno di quell’esperienza. Il linguaggio stabilito incanala certamente sui significati della tradizione acquisita la visione del mondo di ogni generazione successiva, ma questo non ha mai impedito che si verificassero mutamenti e rivoluzioni, nella realtà e nel linguaggio, prima nell’una e poi nell’altro o viceversa. Quindi quella del potere amministrato dal linguaggio è una ovvietà che non implica il dominio inevitabile e immutabile di uno stato di cose per il fatto che il linguaggio lo contiene e lo esprime.
Con il sostantivo “disciplina” e il verbo “disciplinare”, Foucault gioca sul doppio senso di disciplina come “materia”, per esempio l’insegnamento della Letteratura Inglese, e disciplina come “imposizione”, per esempio l’imposizione nelle scuole dello studio di un certo gruppo di opere che formano il canone. Queste due accezioni del termine si sovrappongono in parte col significato di “ordinamento” e “organizzazione”, quindi con connotati di “comprensibilità”, ma anche col significato di “gerarchia” e connotati di “costrizione”.
Chiedersi per esempio come ha fatto la categoria di “autore” a diventare centrale nella nostra idea della letteratura, non riguarda la lingua letteraria, ma il modo di distribuzione delle opere letterarie nel momento in cui tramonta il mecenate e interviene il mercato degli acquirenti dei libri, cioè quando il committente modello diventa il pubblico dei lettori e non la corte del principe. Nascono così i diritti d’autore e le istituzioni normative della letteratura. Il linguaggio in tal caso segue e si adegua. La preminenza di uno stile personale è una necessità distintiva che permette al lettore di individuare i prodotti culturali di suo gradimento e quindi più competitivi sul mercato. Il nome dell’autore, e anche quello dell’editore, diventano ciò che nell’attuale “comunicazione d’impresa” verrebbe definito “brand”.
In questo periodo si forma anche il concetto di gusto, che determina una distinzione culturale con sottofondo sociale. La cultura segue l’economia, si sa. Dov’è l’interesse nello scoprire tale ovvietà? Se l’interesse sta nel porsi in consapevole resistenza al linguaggio che veicola le discriminazioni di classe e le differenze di potere invece che cercare di abolire la classe stessa, si fa solo un lavoro di re-styling, come quello del “politicamente corretto”, che non sposta il potere effettivo su cui continuano ad esistere le differenze di classe.
Inoltre se pure la “resistenza” linguistica attuasse qualche spostamento nella distribuzione del potere, il che è improbabile, il linguaggio non sarebbe egualmente il veicolo del nuovo potere? E quindi egualmente mistificante e oppressivo? O c’è invece una possibilità di sottrarre definitivamente il linguaggio al potere? E se ci fosse, a quel punto non sarebbe inutile, perché incapace di far presa sulla realtà, non avendo alcun potere? Il linguaggio in realtà serve sia per imporre un dominio sia per liberarsene, dipende dalla volontà di chi lo usa. Esso è un mezzo adatto a tutti gli scopi: Agrippa lo usa per i suoi fini, ma l’apologo di Agrippa si smonta con lo stesso linguaggio della retorica. Quando lo si sa usare, il linguaggio è al servizio della sua stessa capacità persuasiva, impositiva e aggressiva, oppure interpretativa e liberatoria in quanto veritativa.
Ma è ancora necessaria un’altra distinzione. Ci si può illudere che:
“One’s title as a speaker is derived from the formal character of one’s discourse, rather than the authority of that discourse derived from one’s social title”(Eagleton, p.15).
“Avere titolo a parlare derivi dalle capacità formali del proprio discorso, invece del contrario, cioè che l’autorità del discorso derivi dalla propria posizione sociale.”
Ma più realisticamente Talleyrand (1754-1838) rifletteva che (cito a memoria): “tu puoi essere il retore più intelligente e più abile del mondo, ma se sei il ministro degli esteri di Andorra, il tuo discorso non ha alcun effetto rispetto a quello del ministro degli esteri di potenze come la Francia o l’Inghilterra.” Il potere del linguaggio quindi non deriva dalla forza implicita nei concetti usati, ma dal potere di chi il linguaggio lo usa. È soltanto quando il potere di chi parla è distribuito in modo paritario, quando cioè si accede alla sfera pubblica con eguale potere, che si può cominciare a competere sul piano del linguaggio. Solo in queste condizioni di parità pregresse, il vero significato di “discorso” è allora, e appunto, l’uso ideologico del linguaggio. Ma attenzione: “uso della lingua coinvolto con l’imposizione di un potere”, significa che il coinvolgimento sta nell’uso che se ne fa, non nella lingua, che può essere usata per tutti i fini.
Per Foucault il potere sarebbe da intendersi, prima ancora che come forza, come volontà e possibilità di agire, che si istituzionalizza e così condiziona (dando loro forma) i rapporti umani attraverso le istituzioni. Il discorso comunque implica sempre che qualcuno parli a qualcun altro. Nel complesso della società il “discorso” corrisponde all’insieme della cultura, che può apparire omogenea o divisa e in conflitto, ma è sempre un fluire di scambi discorsivi. Il discorso è dunque l’evidenza simmetricamente opposta a quella espressa dall’idea che la guerra è la continuazione della diplomazia con altri mezzi. La guerra, cioè uso della forza, e la diplomazia, cioè uso del discorso, sarebbero entrambe forme di esercizio del potere. Ma nel caso della guerra è il discorso delle armi, nel caso della diplomazia è la guerra dei discorsi. Il fine di questa impostazione è di farci capire che l’articolazione intellettuale è uno strumento di potere, e che la sua qualità di discorso, cioè di forma intellettuale, può attenuare la sua brutalità coercitiva, ma è pur sempre un rapporto di forza. Il pericolo è di equiparare il discorso delle armi alle armi del discorso, e quindi di non distinguere tra una regolazione democratica e una non democratica dei rapporti sociali.
In fondo ciò che Foucault vuole demistificare è la credenza che ci siano discorsi, cioè cultura, che non incarnino un interesse e dunque un potere. Ma di fatto rischia di confondere il potere come “poter fare”, cioè evoluzione del sapere, col potere come coercizione e imposizione della forza. Il potere diventa sapere senza perdere la capacità costrittiva, ma la persuasione non è costrizione: la differenza è che la persuasione realizza la volontà del persuaso, mentre la costrizione piega la volontà di chi non è persuaso. In un caso limite è la differenza tra l’eutanasia e un omicidio.
Come si è detto non è l’esistenza del sapere, e quindi del potere, a renderlo oppressivo, ma la sua distribuzione ineguale fra i soggetti. Gli esseri umani non sono mai insensibili a queste differenze, e sanno benissimo se vivono oppressi da dittature o leggi ingiuste, o false libertà, falsi liberismi e democrazie di facciata. Viceversa non è da escludere la tensione utopica della discorsività ad unificare il potere in un discorso comune, e quindi vedere il lato omologante della cultura come un effetto della solidarietà e dell’eguaglianza. La società esige in egual misura la competizione e la collaborazione. La genealogia del discorso come sapere e potere andrebbe ricostruita anche nella sua dimensione solidale e collaborativa. Infatti Eagleton, dopo qualche arzigogolare giunge a questa conclusione:
“Only in this ideal discoursive sphere is exchange without domination possible; for to persuade is not to dominate, and to carry one’s opinion is more an act of collaboration than of competition.” (Ibid. p. 17)
“Soltanto in questa sfera discorsiva ideale è possibile lo scambio senza dominio; perché persuadere non è dominare, e sostenere la propria opinione è più un atto di collaborazione che di competizione.”
(Continua)