Che cos’è la letteratura 10. Letteratura, potere e piacere

Emporio Porpora, Drunk with Cell, 2011

Per fare un po’ di genealogia a nostra volta, ricordiamo che già Sartre, in Che cos’è la letteratura (1947), aveva sostenuto che essa è sempre coinvolta con la violenza di un gruppo sociale ai danni di altri, però vedeva la soluzione del problema non nella letteratura stessa, ma nella società senza classi, che avrebbe prodotto quella letteratura senza ideologia che per ora era impossibile.

Nel Grado zero della scrittura (1953), Roland Barthes cercava invece di concepire proprio un linguaggio purificato da tutti i gradi di ideologia e quindi di potere. Diviso tra “la tragicità di un linguaggio impossibile” e la ricerca di un “non-stile” per un utopico linguaggio universale, più tardi ne avrebbe identificato gli albori con l’avanguardia del nouveau roman. Mccreary is using the system this spring to prepare his students for the state standards of learning assessments, the crucial battery of tests they will start taking do my homework for money premium may 19. Come sappiamo il nouveau roman è stato seppellito dalla sua stessa noiosa aridità. Infatti nella seconda parte della sua carriera Barthes propone una soluzione opposta: Le plaisir du texte (1975).

Occorre dire che nel frattempo era intervenuto il post-strutturalismo, e la compromissione del linguaggio col potere di classe era diventata una compromissione più radicale, quella col logocentrismo, ovvero con la presunta camicia di forza della razionalità, imposta, a partire da Platone, a tutta la cultura occidentale. L’utopia del linguaggio senza ideologia diventa perciò l’utopia del segno innocente, la cui bontà peraltro sembrerà poi consistere nel distacco del significante dal significato.

A questo punto però, per Barthes la redenzione della letteratura dalla violenza di classe non avviene più nella scrittura, ma nella lettura. Nella lettura egli vede opporsi due modalità: il piacere e il godimento. Rispetto al piacere il godimento sarebbe un altro tipo di piacere, più intenso e disordinato, derivante da una lettura delirante e sensuale, che avverrebbe “attraverso il corpo”. Una specie di estasi, da contrapporre al piacere “normale” di una lettura tradizionale, semplicemente comprensiva e intellettuale. Questo piacere normale sarebbe anche principalmente il piacere della trama, ovvero l’interesse per il “come va a finire”, mentre il godimento sarebbe il piacere che si ricava dal “discorso” come superficie lineare del testo parola per parola.

In primo luogo è da notare che la soluzione al problema del potere nella letteratura è delegata ora alla categoria del piacere, cioè ad una dimensione edonistica della fruizione letteraria. Si potrebbe dire che si tratta dell’acquisizione positiva alla teoria letteraria della capacità di trasfigurare in poesia la violenza, attribuita al toro di Falaride già menzionato. Ciò avviene non più come ipotesi da deprecare, ma come via di fuga nell’esperienza supremamente soggettiva della ricezione, come scelta di abbandonarsi e di perdersi nel canto delle sirene. Questa apparente fuga, cambiando la natura dell’effetto letterario, in un certo senso disarmerebbe la violenza in esso incarnata, depotenziandola, e trasformandola in strumento di disordine estetico, simbolicamente rivoluzionario.

Si potrebbe obiettare alla qualità immaginaria e simbolica di questo uso rivoluzionario, ma la letteratura è appunto figurale per natura. Giustamente forse, Frederic Jameson (“Pleasure: A Politcal Issue”, Formations of Pleasure, London, 1983) fa osservare che qui, più che un’utopia, si configura un’atopia, non il luogo che non esiste, ma il luogo del disordine e della perversione. Jameson riconosce a Barthes di aver rivendicato al piacere una connotazione politica e al “corpo libidinale” (la qualità sensuale ed erotica della reazione emotiva) la dignità di apparato percettivo che sfugge alla banale disciplina di un ordine prestabilito.

Tuttavia l’opposizione tra la banalità confortante del piacere borghese, procurato dalla trama, e l’esaltante perversione del godimento anarchico, procurato dal discorso, è un modo di percepire la libertà e la rivoluzione fruitiva che capovolge semplicemente le regole, ma ne mantiene l’ordine gerarchico, sebbene a parti invertite. L’interesse di Barthes nel sostenere queste tesi sembra piuttosto una preoccupazione per l’incapacità di mantenere e rinnovare il piacere della lettura, un piacere che nei suoi ragionamenti appare precario, insicuro e sempre dipendente dalla novità. A mio parere la vera fruizione anarchica starebbe invece nell’abolire la distinzione, cercando e trovando piacere e godimento insieme e sempre, sia nella catarsi prodotta dalla trama, sia nell’estasi del discorso, e anzi rendendo impossibile distinguere, e soprattutto scegliere, tra tutti i tipi e tutte le sfumature di piacere, da reperire egualmente sia nel “testo” che nell’opera.

Come fa Barthes a dire che il piacere delle regole è adeguamento banale all’ordine e non, per esempio, godimento sado-masochista della disciplina? O che il godimento di una sindrome ossessiva non sia reperibile alla presenza di tutti gli stereotipi? Infine questa dicotomia dei piaceri sembra cadere nella trappola del dualismo tra corpo e mente. Il piacere intellettuale del capire ha una connotazione emotiva gratificante, psichica e fisica insieme. Allo stesso modo qualsiasi piacere del corpo attraversa automaticamente la coscienza emotiva e intellettuale del godimento, altrimenti non sarebbe nemmeno percepito come tale.

Similmente, dal punto di vista delle filosofie della differenza, il valore di un “discorso” starebbe sempre nella sua negatività, nella misura in cui si oppone all’ortodossia. Ma, come si è detto, appena rovesciata un’ortodossia, il discorso diventerebbe ortodosso a sua volta. La domanda che sorge è: perché “resistere” e “negare” se poi ciò a cui si perviene è qualcosa dello stesso ordine? Oppure il valore di tale processo è solo l’esperienza di una performance negazionista e sovversiva? Ma anche il neonazismo è negazionista dell’ortodossia dell’Olocausto, e non è commendevole per questo. Quindi anche l’atteggiamento negazionista non è apprezzabile di per sé. Allo stesso modo anche l’ortodossia non è criticabile di per sé. Trasferire sugli strumenti il senso e il valore del loro uso è uno dei tanti modi, o il modo più ingenuo, di togliere responsabilità ai soggetti umani.

Un altro uso più recente del termine “discorso” pone l’accento sull’aspetto dialogico: il discorso è ciò che viene detto fra due o più persone, o che viene detto presupponendo un ascoltatore o un interlocutore, di cui perciò occorre tenere conto, e la cui esistenza è rilevabile e rilevante in alcuni aspetti del discorso stesso. Per la semiotica l’ambito nel quale la funzione letteraria, al pari delle altre, viene individuata e discussa, non è più il testo e la parola, bensì il discorso, come “luogo di attualizzazione del linguaggio”. Si cerca quindi di stabilire una “tipologia dei discorsi”, e poi ancora si passa dalla considerazione del testo come “enunciato discorsivo” alla considerazione dell’“istanza enunciativa”, da cui emergono la “competenza discorsiva” e il soggetto che si presuppone possieda tale competenza. Il campo di indagine si allarga allora alle condizioni di interazione in cui avviene la comunicazione nelle sue dimensioni cognitive, epistemiche, emotive. (Jacques Geninasca, La parola letteraria, Bompiani, Milano 2000, p. 103).

Usando il termine “discorso” come “contesto comunicativo”, si vuole tener conto del fatto che il testo è sì una composizione che ha le sue regole di articolazione interna e di coerenza significativa, ma tale coerenza è inserita in un’occasione di scambio di testi: io scrivo qualcosa per instaurare un rapporto intellettuale, ma più genericamente esistenziale, con interlocutori determinati o ipotetici, o entrambi (con gli interlocutori determinati tramite gli ipotetici). Quindi il testo è un’interlocuzione che, per essere capita, va riferita alla situazione più ampia per cui esiste, e consiste del sapere generale enciclopedico di una società, della tematica più limitata fornita dai testi con argomento simile (i quali testi sono gli interlocutori a cui ogni nuovo testo risponde), e infine alla situazione specifica prefigurata nel testo stesso dai riferimenti particolari in atto. Così ogni nuova opera interloquisce con tutta la letteratura e la cultura precedente, ma inventa anche delle circostanze “attuali”, cioè la posizione ideologica, epistemologica, affettiva e infine di tecnica o di artificio letterario formale, che nel complesso sono il terreno su cui il testo poggia per dire quello che dice: è tutto ciò che è implicato, per poter poi esplicare qualcosa in più. Da questo punto di vista capire il testo e interpretarlo, significa anche individuare le varie posizioni interlocutorie in cui il testo interviene “discorsivamente” per dire, contraddire o sostenere qualcosa, sia tramite la sua dimensione intelligibile (idee) sia tramite quella sensibile (suono del significante).

Il testo interloquisce prima con il resto della letteratura, e la letteratura a sua volta interloquisce con il resto dei saperi e degli atteggiamenti umani. Il sapere è il campo della conoscenza e della memoria, cioè una zona di elaborazione simbolica che progetta l’azione e, come si è detto, nello stesso tempo la ritarda, con un effetto di saggezza. La saggezza consiste nel prevedere le conseguenze delle scelte, e si fonda sull’esperienza memorizzata o tesaurizzata, o capitalizzata, laddove la stupidità, al contrario, consiste nell’agire senza tener conto dell’esperienza acquisita.

Il carattere interlocutorio del testo è dunque il suo aspetto comunicativo, e quindi è una prova della sua natura comunitaria. La sua essenza consiste nel mettere a disposizione della comunità i suoi ritrovati formali e ideali. Ma a che serve sapere questo? Serve a spiegare l’intertestualità intrinseca di ogni sapere e la interculturalità di ogni cultura a partire dalle proprie articolazioni interne. La storia della cultura mostra che il sapere passa dalla sua dimensione rituale e religiosa, di comunicazione con il sacro e il divino, a varie altre forme di consapevolezza, per esempio alla sua dimensione culturale come sistema di valori e di comportamenti sociali, alla sua dimensione semiotica come sistema di codici di segni, e infine alla sua dimensione comunicativa come sistema di condivisione discorsiva, che produce ed articola solo ciò che si può comunicare.

Ma quale utilità ha questo per comprendere la natura della letteratura e della letterarietà? Serve forse a capire che il testo letterario è un’unità del discorso che, all’interno della discorsività generale del sapere, coagula una posizione e una soggettività da cui vengono enunciate delle asserzioni, le quali in via ipotetica (cioè nel laboratorio della letteratura) intervengono a prospettare vecchi o nuovi modi di essere, o mondi possibili. Tutto questo per ora non aggiunge molto alla conoscenza della letteratura in sé. È vero però che questo permette di essere più consapevoli della forma, dei mezzi e delle condizioni di produzione della letteratura.

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