Introduzione a “Cinque romanzi sulla Storia del ‘900”

Emporio Porpora, Dov’è il mondo?, 2012

Ho scelto questi cinque libri perché nel corso delle letture di una vita sono tra quelli che mi hanno colpito di più, e ognuno dei quali era stato il primo che avevo letto di quell’autore. Solo dopo mi sono accorto che sono tutti romanzi storici, che percorrono la storia del ‘900 illustrando momenti fondamentali del divenire europeo, cruento e terribile nella prima metà, più ricostruttivo e indubbiamente edificante nella seconda, nonostante le difficoltà e le perdite culturali che anche le evoluzioni, come e talvolta più delle rivoluzioni, comportano.

Questi romanzi sono: Fuga senza fine / Die Flucht ohne Ende, 1927, di Joseph Roth; Il silenzio del mare / Le Silence de la Mer, 1942, di Vercors (che, in termini di genere specifico, non è un romanzo, ma una novella); La vita agra, 1962, di Luciano Bianciardi; The History Man, 1972 di Malcolm Bradbury (non ancora tradotto in italiano); e il graphic novel Persepolis, 2000-2003, di Marjane Satrapi. Essi sono storici in un senso peculiare, e cioè non perché, o non solo perché,  illustrano i costumi, la mentalità o l’antropologia di un’epoca passata, che è il modo in cui più soventemente viene inteso il “romanzo storico”, bensì perché l’evento dominante che costituisce il tema del racconto è ciò che caratterizza fortemente quel presente e di lì significativamente la svolta verso il futuro che seguirà.

Siamo tra il tipo di romanzo storico per così dire “evenemenziale”, alla Tolstoi, come Guerra e pace, che racconta lo scontro del popolo russo con le armate napoleoniche, e il tipo dei Promessi sposi, che racconta il modo in cui la vicenda di Renzo e Lucia sia impregnata di antropologia seicentesca, che è il fine ultimo della rappresentazione manzoniana. Le due Guerre Mondiali, il boom economico, le rivolte studentesche e le rivoluzioni culturali connesse, la rivoluzione mussulmana in Iran e le sue ripercussioni per la contaminazione culturale in Europa, sono i grandi fattori, più o meno traumatici, che danno una svolta significativa al modo di vivere e di sentire dei popoli che li hanno vissuti.

Prendendo a prestito i termini dalla teoria storiografica, i due tipi di romanzo storico si potrebbero denominare: uno “evenemenziale”, perché descrive il prodursi del mutamento intorno ad un evento rilevante circoscrivibile; e l’altro “non-evenemenziale”, perché lo svolgersi dei fatti e quindi il mutare degli eventi è solo un mezzo, di importanza di solito minore, per illustrare una condizione epocale di più lunga durata, che non è in evoluzione a causa di quegli eventi, ma al contrario pervade la natura e lo svolgersi di essi, e attraverso di essi si mostra in modo significativo. Nel primo i fatti cambiano la Storia, nel secondo la Storia riempie di sé i fatti.

Tuttavia possiamo teorizzare anche un possibile modello intermedio. Per esempio in The History Man c’è la critica sociale e politica ai personaggi nella loro contingenza, ma la loro azione pratica e ideologica è solo una componente di un dato più generale e di un contesto più ampio, che è appunto la Storia di quel periodo. La Storia “culturale” è sempre più “lenta” di quella economica e politica, tuttavia per esempio l’uso stesso della sineddoche “il ‘68” per indicare tutto il periodo delle rivolte giovanili e studentesche in Europa e in America, dal 1966 al 1975 circa, spiega come questo periodo storico abbia i caratteri della durata, seppure ridotta, insieme a quelli dell’evenemenzialità, come avvenimento storico precisamente situato nel tempo con una sua singolarità. È infatti un periodo di più acuta evoluzione e trasformazione dei costumi e non tanto dell’economia. Poiché la cultura segue e non precede l’economia, queste rivoluzioni culturali sono l’effetto del periodo di prosperità e di boom economico succeduto alla Seconda Guerra Mondiale e alla ricostruzione.

Qui possiamo osservare che il romanzo storico nasce, o per lo meno fiorisce, nell’Ottocento, secolo della formazione o del raggiungimento dell’indipendenza di alcune nazioni europee, o del rafforzamento colonialista di quelle già esistenti, e dunque del nazionalismo che ne costituisce in gran parte l’ideologia. Nel Novecento il romanzo storico sembra avere un momento di eclissi, forse anche perché emergono o si diffondono varie forme di internazionalismo: socialismo, anarchismo, marxismo. Abbiamo così un succedersi di fasi che vanno dallo sgretolamento degli imperi (Asburgico, 1916-18, e Ottomano, 1912-22) alle varie ideologie sovranazionali, e poi di seguito alla formazione del nazionalismo dittatoriale fascista, nazista e simili (Ungheria e altri), che del nazionalismo sono un’intossicazione suicida.

Alla fine della Seconda Guerra Mondiale inizia la costruzione dell’Europa sulla spinta dell’allargamento e della fusione dei mercati, su base continentale e poi mondiale. La vicinanza degli eventi storici fa sì che quando essi appaiono nei romanzi del Novecento questi sembrano opere realistiche e d’attualità: e infatti sono rappresentazioni e interpretazioni della vita presente. Dal punto di vista odierno riacquistano invece l’aura storica che compete loro. I nostri romanzi sono dunque realistici e diventano storici per il nostro interesse, autenticamente conoscitivo, per l’epoca che rappresentano, che è anche l’epoca in cui sono stati scritti. In apparente concomitanza con la “morte dell’autore”, è il lettore odierno che li legge (e li “riscrive”) anche come romanzi storici.

Nell’ambito della crisi economica che nasce negli Stati Uniti intorno al 2008, si trasferisce in Europa e poi contamina il mondo intero fino ai giorni nostri, cioè nel 2012 e 2013, gli sbalzi di carattere economico sembrano prevalere sugli assestamenti culturali, incidendo come conseguenze impreviste della globalizzazione tecnologica e mercantile sui modi di produzione dell’economia mondiale. Il danno apparente della globalizzazione è prodotto dal fatto che la tendenza inevitabile a uniformare avanzamenti e arretramenti dello sviluppo, almeno temporaneamente, fa avanzare, e con notevoli turbolenze, i paesi più arretrati e frena gravemente quelli più avanzati di cui l’Europa è o era parte preminente. L’incapacità di prevedere e capire la crisi produce paranoiche visioni di possibili vie di fuga e di sconsiderati rimedi, quali la fine dell’unione Europea stessa o l’uscita dall’euro.

La crisi si supera invece mettendo in funzione i sostegni finanziari adatti ad attutire le scosse di assestamento, cioè fino a quando il costo della produttività e l’adeguamento dei consumi potrà gradualmente uniformarsi nella parte più vasta del mercato mondiale. In questo quadro il destino dell’Europa come confederazione di popoli e culture affini non cambia, anche se in questi anni appare inevitabilmente in discussione. In questa contingenza la lezione che i nostri romanzi storici possono darci consiste appunto nel legame geopolitico che queste storie lasciano intravedere tra i popoli persino quando si tratta di conflitti armati e rivoluzioni. Nell’esplorare questa possibilità mi è parso significativo un intervento sulla “misura culturale ideale”  dell’unione europea di Patrizia Nerozzi (vedi infra), concepito in epoca più ottimistica, ma che conserva il senso di qualcosa a cui gli europei, anche come condomini del mondo, non rinunceranno. Anche in questo senso, prosaicamente politico, la rilettura di queste opere è utile, a conferma non solo del luogo comune storiografico per cui la Storia è sempre Storia del presente, ma anche perché attraverso questi romanzi si ripercorre il sentiero accidentato che ci ha comunque condotti dove ci troviamo, in una condizione almeno relativamente felice. Il conferimento del Premio Nobel per la Pace all’Unione Europea nell’ottobre del 2012 è una conferma e un incoraggiamento alla funzione decisiva per il mantenimento della pace, nel continente in particolare, ma tendenzialmente nel mondo, che l’Europa ha e ha avuto dal 1945 ad oggi.

Leonardo Terzo

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