Culture, sottoculture, ideologie, egemonie: The Meaning of Style.

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Leonardo Terzo, Subcultures 1, 2012

Culture, sottoculture, ideologie, egemonie. Riflessioni e confutazioni a partire dal testo di Dick Hebdige: Subculture. The Meaning of Style.

Per sottocultura Hebdige intende le forme di espressione di gruppi sociali subalterni che, attraverso l’esibizione e la ritualizzazione di uno stile di vita, manifestano una ribellione di carattere sociale, se non propriamente di carattere politico.

A questa concezione si possono immediatamente fare delle obiezioni. Non è detto per esempio che questi gruppi siano socialmente subalterni. Potrebbero essere semplicemente differenti, e svolgere la funzione di un’avanguardia che, come quelle propriamente artistiche, anticipa i fermenti e gli sviluppi della sensibilità comune.

Si pone qui il problema delle élite che, per il fatto di essere un gruppo ristretto rispetto alla comunità generale, non sono necessariamente subalterne, ma anzi sono tradizionalmente aristocrazie oligarchiche o culturali, ambito di elaborazione del meglio della civiltà, da cui i critici della società di massa come Matthew Arnold e poi F. R. Leavis fanno discendere i valori da diffondere presso le classi inferiori.

Di fatto i gruppi a cui Hebdige si riferisce, per esempio i punk, gli skinhead, i rocker, sembrano essere principalmente i giovani, o parte dei giovani, della nuova classe operaia, che manifestano la loro opposizione alla cultura borghese non più in termini direttamente politici nella lotta di classe, ma appunto sotto forma di opposizione culturale come lotta fra stili di vita. In sostanza sarebbero giovani lavoratori che, al di fuori dei conflitti politici istituzionalizzati o oltre a questi, conducono una lotta a livello di “immagine”, per testimoniare culturalmente la loro opposizione.

Sarebbero poi anche ibridati da elementi (soprattutto musicali) delle culture extraeuropee, come per esempio quella giamaicana, presenti in Inghilterra in seguito all’immigrazione dei cittadini inglesi delle ex colonie, e come tali subalterni, in quanto socialmente discriminati su base etnica. Anche in questo caso si può cogliere un’affinità con le avanguardie storiche del modernismo che, all’inizio del Novecento, accolgono e naturalizzano tratti stilistici e formali dei popoli africani. La lotta di classe si mischia così col conflitto razziale e viene in parte sostituita da esso.

Ne deduciamo alcune caratteristiche, con cui spiegare la connotazione di subalternità attribuita da Hebdige:

a) L’agonismo espressivo, come quello delle avanguardie artistiche, è una modalità della questione degli intellettuali e degli artisti come ceto autonomo, in realtà emarginato dalla perdita di potere, che emerge in reazione al suo isolamento.

b) Il capovolgimento della prassi, per cui l’immagine, cioè il livello sovrastrutturale, prende il posto della base economica.

c) La dimensione ristretta e minoritaria, che può riferirsi sia all’élitismo aristocratico, sia a strati marginalizzati della società. Hebdige propende per questa seconda ipotesi, poiché connette questi gruppi alla classe operaia.

d) La dimensione giovanilista, che collega, e stempera, il conflitto politico con la rivolta generazionale, e quindi contro i valori espressivi di una sensibilità di altri tempi, come accade per le arti.

e) Per tutte le caratteristiche al punto d) si tratta però anche, come ha dimostrato Bourdieu, della questione del potere, che tali gruppi non avrebbero, e per cui sarebbe giustificato definirli subalterni.

f) Tuttavia il problema della subalternità può essere semplicemente accantonato, sostituendo il concetto di sottocultura con quello, già a suo tempo adottato nell’America degli Anni Sessanta, di “controcultura”.

L’antagonismo espressivo valorizza in modo particolare gli oggetti materiali, che diventano simbolici di distinzione, separatezza e/o esilio volontario, con connotazioni perturbanti, minacciose, autodistruttive. L’analisi delle sottoculture comporta la descrizione e l’individuazione delle identità che esse intendono designare (perché i rocker si oppongono agli skinhead, e i punk sono diversi da entrambi?), i processi di significazione o di “feticizzazione” che investono i materiali di culto e i comportamenti di rito (in che modo gli oggetti e i comportamenti vengono selezionati e caricati di valore emblematico), la loro funzione nell’ambito del sistema sociale in determinate contingenze storiche.

La parola “cultura” significa sempre anche “educazione” e dunque “valore”. Per esempio il valore nelle culture antiche, compresa quella cristiana, era indicato come “virtù”. Nella modernità la cultura deve tener conto della meccanizzazione della vita, della divisione del lavoro, delle dimensioni di massa delle società e adattarsi a questi fatti. La società moderna non è più considerata “organica”, come si ipotizza o si sogna che fosse nel passato la comunità feudale, dove la cultura assumeva una funzione sacrale. La società moderna sarebbe (anche per colpa dell’illuminismo) disorganica, non integrata, disincantata, alienata. Ad essa nel futuro si contrappone l’utopia socialista, caratterizzata dall’annullamento della distinzione tra lavoro e tempo libero. La cultura come elaborazione apprezzativa della civiltà  ha un radicamento conservatore e si sublima nell’estetica. La cultura come integrazione non alienata ha un connotato utopico e si dissolve nella sua accezione antropologica.

La cultura, in entrambi i casi, si può considerare autocoscienza sociale, cioè il mezzo con cui una società comprende se stessa, interpretando i propri valori e i propri fondamenti. La critica culturale degli Anni Cinquanta, da Barthes a Richard Hoggart a Raymond Williams, applica le metodologie analitiche elaborate dalla cultura alta ai fenomeni della vita quotidiana. La vita quotidiana sarebbe il luogo in cui le tendenze sociali appaiono più significative e rivelatrici, proprio perché celate sotto l’evidenza e l’abitudine. Il compito della critica culturale è perciò sin dall’inizio la demistificazione dei “miti d’oggi”, ovvero dei dati apparentemente oggettivi e universali che permeano la vita di tutti i giorni. Il presupposto epistemico era anche l’idea di cultura come sistema semiotico aperto all’analisi strutturale.

Ciò che si sviluppa al di sotto della coscienza, dissimulato nel normale senso comune, e deve essere demistificato, è detto “ideologia”. L’ideologia è invisibile nella trasparenza pervasiva della quotidianità. Essendo al di sotto della coscienza, non è neppure una falsa coscienza, è piuttosto una falsa incoscienza, che sfugge alla percezione vigile.

Tutti gli aspetti della vita umana passano dalla naturalità alla culturalizzazione, perciò acquistano un senso e sono pervasi da esso. Questo senso diventa comune anche se elaborato in situazioni e per interessi specifici e parziali, ma essere culturalizzato significa acquisire un valore semiotico. Perciò è senso solo ciò che viene comunicato o usato per comunicare. La deriva dominante della natura umana è la semiotizzazione, cioè l’articolazione dell’ontologia tramite lo scambio sociale di significati che produce le identità e le società.

L’analisi semiotica si propone di evidenziare la parzialità ideologica naturalizzata dal senso comune, cioè di mostrare che i contenuti hanno delle forme espresse dai segni e operanti sempre anche come segni. Per far questo occorre capire che i segni fanno parte dei codici, ed è attraverso i codici che si organizzano le ideologie.

In ogni società gruppi diversi si contendono il potere di organizzare la vita (e il codice di significati che ne permette il funzionamento) secondo i propri interessi. Le classi dominanti tendono ovviamente ad imporre idee che servono ai loro interessi: per esempio attualmente è in corso a livello mondiale un conflitto per imporre l’idea che la globalizzazione è un bene per tutti. A questa si oppone un’altra idea, e cioè che la globalizzazione non è un bene per tutti, ma è un bene per taluni e un male per altri, oppure che sotto l’idea generale di globalizzazione si nasconde il tentativo di far accettare un particolare tipo di organizzazione del mercato mondiale, mentre ci possono essere altri modi, più equi, di globalizzare l’economia del mondo. Queste diverse concezioni di globalizzazione possiamo chiamarle “ideologie”.

Quando una ideologia riesce ad essere più convincente di altre diciamo che ha una egemonia. L’egemonia è propriamente culturale, si impone cioè attraverso le idee e non con la coercizione. Di solito però chi ha il potere della produzione materiale ha anche i mezzi della produzione intellettuale e riesce ad imporre le sue idee anche a coloro che non ne sono avvantaggiati. Le idee dominanti giustificano così il potere delle classi dominanti e lo fanno apparire naturale.

Oggi tuttavia, in un’organizzazione sociale altamente culturalizzata si ritiene che i mezzi della produzione intellettuale abbiano acquisito un potere di condizionamento che si impone anche al potere di produzione materiale. Il vero potere sarebbe quindi quello derivante dal possesso dei mezzi di produzione dei beni simbolici, delle immagini in particolare. L’acquisizione del consenso tramite l’egemonia ideologica permette poi, di conseguenza, di impadronirsi del potere materiale. Oltre al fatto che i beni materiali acquisiscono sempre di più un significato simbolico mentre le notizie e le idee (oltre che gli intellettuali) vengono comprate e vendute come merci.

Poiché l’egemonia è un potere di convincimento e non una costrizione diretta, secondo Gramsci essa sarebbe un equilibrio instabile, che va sempre rinegoziato e riconquistato. La critica culturale diventa quindi importante appunto per la possibilità di demistificare le idee dominanti temporaneamente accettate ed egemoni.

In questa situazione sembra dunque che gli stili di vita acquisiscano, attraverso la capacità di comunicare modi alternativi di organizzare la vita e la società, un’importanza che prima non avevano. Tuttavia è anche viva l’obiezione che la lotta per il possesso dei segni non è efficace a livello di semplice stile, ovvero allo sbocco nella fase consumistica della ricezione, che rimane superficiale e politicamente vaga, bensì debba riguardare il possesso dei mezzi di comunicazione dei prodotti simbolici. Il padrone dei mezzi di produzione dei messaggi è il padrone dei messaggi, si appropria di tutti gli stili e ne determina il significato e l’effetto reale.

Proprio il riciclaggio di tutti gli stili del passato e del presente, effettuato dai movimenti postmoderni, dimostra che un carattere fondamentale della contemporaneità è la neutralizzazione dei significati da parte dei mezzi che li veicolano, e quindi da parte dei possessori di tali mezzi, che concedono o negano la presenza e la visibilità nella comunicazione stessa. Il mezzo è il messaggio significa anche che il possesso dei mezzi condiziona qualsiasi messaggio.

L’illusione di offendere e ferire le maggioranze silenziose con i comportamenti alternativi, e quindi di incidere sulla consapevolezza politica delle masse, è crollata sotto la politica di esibizionismo scandalistico, favorita dai padroni delle tecnologie, che assorbe l’attenzione delle masse e le distoglie dai problemi reali. Se invece una speranza di mutamento politico deve essere nutrita, essa va posta nella capacità naturale (ormonale) delle generazioni di rinnovarsi, spiazzando sempre le attese dei costruttori di consenso e dei presunti geni della comunicazione.

Un carattere specifico dei punk è il collage, in inglese “cut up”, degli stili d’abbigliamento di tutte le generazioni di ribelli giovanili del dopoguerra, che rispecchia l’ibridazione tra motivi occidentali e giamaicani, reggae e rock, nella musica. Si produce un eclettismo e una cacofonia a livello visivo tra una quantità di cose, letteralmente tenute insieme con gli spilli. Fu un fenomeno molto fotogenico che occupò molto i giornali popolari inglesi da 1977 in poi.

Si ebbe un caos di ciuffi, giacche di cuoio, mocassini e stivaletti a punta, scarpe da ginnastica e impermeabili tascabili, capelli corti tipo “mod” e teste rasate come gli skinhead, giubbottini corti a vita e anfibi ai piedi, il tutto tenuto a posto e fuori tempo da adesivi spettacolari, spille  di sicurezza, mollette per i panni di plastica, cinghie sadomaso e pezzi di spago, il che suscitava insieme curiosità, orrore, fascino morboso.

Gli  elementi eterogenei e contraddittori confluiscono in un insieme apocalittico. Esempi di artisti punk erano David Bowie, inglese, e Patti Smith, americana, mentre altri collegamenti attraverso Andy Warhol, i Who e i Clash, c’erano col cinema underground e l’arte d’avanguardia. Si va verso un’estetica dichiaratamente nichilista, nel senso generico di negazione di ogni certezza e valore oggettivo, che ha interesse per una sessualità polimorfa, deliberatamente perversa, un individualismo ossessivo, una coscienza di sé frammentaria. Il fantasma del dandy che annega nella propria opera si aggira per il rock, restituendo in play back l’alienazione dei giovani.

Il punk rappresenta lo sbocco di tutti questi processi, come alienazione tangibile che offre alla macchina fotografica la rimozione dell’espressione, il rifiuto di parlare per evitare una collocazione. Altri aspetti sono il solipsismo, la nevrosi, la rabbia cosmetica. Il reggae invece si pone ad un estremo opposto, ma la cultura negra giamaicana condivideva in profondità un’affinità col punk, vale a dire il convergere su una problematica razziale.

Jazz e rock hanno ritmi frenetici, il raggae invece è sintonizzato sulla lentezza cadenzata, più grave e cupa e oscilla su una linea di bassi. Ha una retorica più compatta fondata  sulla cultura orale giamaicana e sull’impiego della Bibbia come testo di una litania di botta e risposta tra i fedeli e il predicatore.

La funzione della sottocultura

La sottocultura va messa a confronto con le altre sottoculture, con i gruppi sociali che le affrontano come genitori, istituzioni scolastiche, polizia, altri giovani, e con le altre culture come quella operaia e quella borghese. Il confronto generazionale rischia di perdere lo specifico culturale e storico delle varie sottoculture. Certamente il secondo dopoguerra è un momento di trasformazione epocale dei modelli sociali e di disgregazione delle comunità tradizionali nei villaggi e nei quartieri. C’è l’avvento del mass media, muta l’assetto familiare, l’organizzazione della scuola e del lavoro, muta il rapporto tra lavoro e tempo libero, c’è la frantumazione della comunità operaia. Infine l’incremento del potere d’acquisto dei giovani anche della classe operaia. Ciò spinge alcuni sociologi a trattare i giovani come una classe a sé, principalmente come consumatori o come particolare tipo di devianza sociale.

Le ricerche sociologiche degli Anni Cinquanta in Inghilterra misero in luce la funzione compensativa delle bande di minorenni, per i ragazzi che non riuscivano a scuola. Nella banda i valori del mondo normale: sobrietà, ambizione, conformismo erano sostituiti dal loro opposto: edonismo, sfida all’autorità, ricerca di cose eccitanti. Tuttavia altri studiosi ritennero di trovare, per quanto distorti, dei legami coi valori degli adulti, cioè ricerca del rischio e dell’eccitazione come valori simili alla produttività e al rinvio della gratificazione in vista di un fine.

Inoltre i connotati di classe non scomparivano, ma venivano rielaborati all’interno degli stili del tempo libero. In sostanza, mentre i giovani cercavano di differenziarsi dai genitori, non potevano fare a meno di mantenere forme di identificazione con loro. Mod, teddy boy e skinhead mediavano tra familiare e fantastico, esprimevano e tentavano di risolvere simbolicamente le contraddizioni della vita della loro classe e dei loro genitori. Per esempio i mod cercavano di rappresentare una immaginaria mobilità sociale dei ceti impiegatizi cui appartenevano i loro genitori. La classe era sensibile nella pratica e vissuta nello stile, le inquietudini e le tensioni tra conformismo e devianza, scuola e famiglia, lavoro e tempo libero erano esibite nella linea della giacca dei mod o nelle suole delle scarpe dei teddy boy.

Ci sono sia motivi di integrazione e coerenza sia motivi di devianza e discontinuità. Spesso i figli, per esempio gli skinhead, cercavano di recuperare in maniera formale e distorta dei valori tradizionali della classe operaia che i loro genitori non avevano più potuto mantenere per il cambiamento dei tempi. Perciò appaiono conservatori e maschilisti. I punk, per quanto sembrino parodiare l’alienazione, riproducono nella coerenza di gruppo, fortemente sentita, quella coerenza che la società dei genitori non ha più, e celebrano in termini eroicomici la morte della comunità e il crollo dei valori e dei significati tradizionali. In generale si possono perciò interpretare le sottoculture giovanili come forme di resistenza ritualizzata alla modernizzazione distruttiva dei vecchi modelli di vita che il secondo dopoguerra porta nella società.

Ogni gruppo sottoculturale tratta a suo modo la materia prima dell’esistenza sociale. Le sottoculture esprimono un insieme immaginario di rapporti. Lo specifico culturale però è proprio questa dimensione immaginaria, e quello che conta è la sua funzione in termini di efficacia sui rapporti sociali stessi. Voglio dire che se l’espressione fa prevalere un immaginario evasivo o delirante o folle, ci si può chiedere quanto incida sui rapporti reali non immaginari. Ciò rientra nel problema generale dell’espressione estetica e della sua portata pratica, tanto più però che qui siamo in una  forte commistione di espressione e vissuto, un esempio di arte applicata e di esteticizzazione della vita che potrebbe essere scambiata per impotenza realizzaztiva proprio laddove sembra realizzarsi nel vissuto.

I mezzi di comunicazione di massa svolgono un ruolo centrale nella definizione della nostra esperienza. Perciò, mentre i rapporti sociali concreti si fanno sempre più frammentati, anche ciò che viene a formare la sottocultura è già stato manipolato, perché semplicemente passato, attraverso i media, che forniscono un complesso coerente di rappresentazioni e di immagini. I membri delle sottoculture in parte si riconoscono in queste rappresentazioni e in parte le contestano.

I punk reagiscono alle condizioni materiali della vita inglese in un periodo di depressione economica, di crescente disoccupazione, riscoperta della miseria e disorientamento morale, ma teatralizzano la decadenza dell’Inghilterra, si differenziano dagli hippy che considerano ben pasciuti complementi della cultura dell’abbondanza e dello sviluppo degli Anni Sessanta, e ad essi oppongono vestiti stracciati e atteggiamenti da sottoproletari. Si presentano come degenerati e aggressivi, segno di una frustrazione genuina, ma la pubblicizzazione della loro immagine era insieme la loro forza e la loro fine nella dimensione dello spettacolo. Essi vogliono usare i media e invece i media usano loro. C’è dunque una fase di rottura iniziale e una fase di ricomposizione e di riassorbimento che finisce in una serie di articoli su riviste intitolati Punk have mothers too! Anche i punk hanno una mamma.

Nella prima fase essi sono il sintomo di un intero agglomerato di problemi contemporanei e li esprimono con un atteggiamento oltraggioso contro la famiglia, la scuola, i datori di lavoro, assistenti sociali e polizia, creando un’atmosfera da panico morale. Anche il  loro linguaggio è deformato e in parte sgrammaticato e incomprensibile, perché vuole porsi come “rumore” che contrasta la comunicazione. La loro identità si poneva come alternativa non direttamente in termini di lotta di classe, ma indirettamente. Per esempio l’immagine di David Bowie sfidava la certezza dell’identità sessuale, e cercavano di esprimere l’alterità accogliendo elementi eterogenei da tutti i campi, dal cinema alla televisione, dalla moda al femminismo, dal consumismo al trash.

Il rumore delle sottoculture, almeno finché appare tale, è interpretato come potenziale anarchia che si oppone come disordine semantico o blocco temporaneo alla rappresentazione dei media. Nello stesso tempo, come contenuto proibito, esprime la coscienza della diversità, in atteggiamenti definiti “innaturali”. L’emergere di una sottocultura spettacolare è accompagnato da un’ondata di isterismo che oscilla tra il timore e la fascinazione. Essa di solito viene celebrata nelle pagine della moda e attaccata nelle pagine dei problemi sociali. Prima lo stile attira l’attenzione, poi la polizia scopre i comportamenti antisociali e i vandalismi. Ma con la propagazione del fenomeno si attenuano le tensioni e la sottocultura diventa perfettamente vendibile. Alla fine i mod, i punk, i glitter, i rocker sono integrati e collocati nella mappa di ciò che viene definito: una realtà sociale problematica.

La sottocultura viene recuperata come spettacolo divertente all’interno della mitologia sociale dominante. Il recupero avviene per due vie: la trasformazione dei segni sottoculturali come i vestiti e la musica in oggetti di produzione di massa, ovvero la mercificazione; e l’etichettamento e ridefinizione dei comportamenti devianti, ovvero l’omologazione ideologica.

La mercificazione ha a che fare col fatto che la sottocultura riguarda il consumo ed il tempo libero, comunica quindi attraverso le merci anche se tenta di distorcere il significato degli oggetti. Perciò la sottocultura cerca di contrapporsi alle merci, ma opera con esse. Lo stile deve comunque manifestarsi in un processo di produzione, pubblicizzazione e confezione, che inevitabilmente diluiscono le potenzialità sovversive e si trasportano nella moda ordinaria. Qui le innovazioni diventano comprensibili, diffuse e danno un profitto. Un servizio giornalistico sull’assimilazione del punk su Cosmopolitan era in titolato “To shock is chic”.

Quanto all’interpretazione ideologica: dapprima nella comunicazione dei media si dà più importanza agli eccessi sensazionalistici. Le sottoculture sono descritte come ricettacoli di pericolosi alieni, di bestie selvatiche minacciose. Questa minaccia è neutralizzata attraverso una rappresentazione sempre più addomesticata (anche i punk hanno una mamma, con articoli illustrati dalle foto dei punk in famiglia come bravi ragazzi): fino a ridurre l’altro all’identico, oppure come puro elemento di spettacolo, come un clown.

La manipolazione commerciale e quella ideologica convergono: la riammissione dei punk in famiglia comincia infatti quando la loro musica comincia ad essere venduta sul mercato normale. Le riviste di musica cominciano a raccontare storie dei punk che cominciano a vestirsi di stracci e finiscono nella ricchezza e nella fama, o di ragazze qualsiasi che diventano imprenditrici di case di moda punk. Questa immagine della fortuna economica è anche l’opposto della depressione economica inglese a cui i punk erano una reazione.

Barthes confronta una foto di cronaca con una foto pubblicitaria. In quest’ultima coglie in più un’intenzione comunicativa. Mi pare la stessa differenza tra arte e storia. L’arte aggiunge ai fatti selezionati una intenzione filosofica, cioè un’aggiunta di significato intenzionale, anche se difficile da precisare in termini che non siano la forma stessa del messaggio estetico. Anche lo stile sottoculturale ha un’intenzione aggiunta visibile come comunicazione enfatica fatta di abbigliamento, ballo, gergo, musica e atteggiamenti.

Ciò che vorrebbe comunicare è un insieme di ruoli e scelte di tipo sociale, riguardo alla classe, l’immagine di sé, il desiderio di piacere ecc. La cultura dominante invece tende alla normalità come opposto di devianza, come tale cerca una certa invisibilità o naturalità. L’una vuole attirare l’attenzione, l’altra no. La differenza è in sostanza una ricerca di spettacolarità. Mettono in mostra i propri mezzi, per esempio gli strappi, e dimostrano che tali mezzi vengono usati per comunicare anche quando sembrano invisibili. La sottocultura svolgerebbe quindi la stessa funzione dell’avanguardia modernista, cioè la riflessività sui propri mezzi. Tali mezzi sono la ricollocazione e ricontestualizzazione di oggetti di uso comune per significare diversità e identità di gruppo.

Caratteri delle sottoculture sono: il collocarsi nella classe operaia, far parte del consumo e di comunicare attraverso i rituali di consumo un’identità segreta e proibita. La tecnica più usata è il bricolage, che è “scienza del concreto” in opposizione alla normale scienza dell’astratto, in quanto non teorizza, ma adatta in strutture improvvisate ciò che trova nell’ambiente e che in origine aveva usi diversi. Per esempio i tifosi teppisti trasformano le aste delle bandiere in armi di offesa, la bandiera inglese usata come disegno per le camicie, le moto, normale mezzo di trasporto, usate come oggetto di riconoscimento del gruppo.

L’agonismo è lo stesso delle avanguardie artistiche, in particolare la teorizzazione surrealista dello stravolgimento del senso comune e delle distinzioni tra sogno e realtà, lavoro e gioco, mediante scrittura automatica o associazione tra oggetti distanti tra loro e in apparenza non accoppiabili. Così gli oggetti più irrilevanti e incongrui: una spilla, una gruccia, un pezzo di televisore, una lametta da barba, un assorbente igienico, entrano in un contesto improprio e artificiale, secondo il motto: va bene ciò che non sta bene; così pure le catene del gabinetto e i sacchi di plastica della spazzatura.

Tutto era usato come critica ai criteri della modernità e del buon gusto. Il trucco, per maschi e femmine, veniva messo per essere visto, mentre di solito il trucco vuole essere invisibile. I volti divennero ritratti astratti, studi sull’alienazione. I capelli venivano tinti di giallo o nero o arancione con mèche verdi, oppure decolorati a punto interrogativo. Le camicie bianche delle divise scolastiche venivano profanate da strappi, coperte di scritte o di sangue finto. Si usarono indumenti di cuoio delle pratiche sadomaso, calze a rete e tacchi a spillo.

Il ballo dei punk si trasformò in una pantomima di robot di tre tipi: posa, pogo e robot. Nella posa una persona trovava una posizione appropriata e un altro si sarebbe messo di fronte da una posizione più o meno inginocchiata come se gli stesse facendo un foto. Questa posa poteva durare da qualche secondo a qualche minuto. Il pogo era una serie di salti con le mani sui fianchi, muovendo la testa come se si volesse colpire una palla. In opposizione al rock, che prevedeva una libertà di movimento, qui si rendeva inutile l’improvvisazione, i movimenti erano ripetuti rigidamente, e variava solo il tempo della musica. I ritmi più veloci erano movimenti ripetuti freneticamente sul posto, quelli più lenti diventavano movimenti eseguiti con un distacco catatonico. Il robot era il più sofisticato, praticato dai gruppi punk più esclusivi, consisteva in contrazioni appena percettibili della testa e delle mani, oppure in barcollii come i primi passi del mostro di Frankenstein. Poi si bloccava per qualche minuto e riprendeva l’intera sequenza. La musica era uniforme ed essenziale, o intenzionalmente o perché in realtà non sapevano suonare. Su uno sfondo di batteria e confusione e di voci che urlavano si ponevano delle linee di suono di chitarra elettrica al massimo volume o un suono lineare di sassofono, comunque senza melodia. Il motto era: noi siamo dentro il caos, non dentro la musica.

I nomi dei complessi Sex Pistols, Clash, The Unwanted, The Rejects, erano aggressivi e, come i titoli dei pezzi, erano osceni e dissacranti. I Wanna Be Sick on You, If You Don’t Want to Fuck Me, Fuck off. Lo scopo era l’autoemarginazione. Si può dire che anche la musica fosse un pretesto per diffondere gli atteggiamenti. Il pubblico era coinvolto e spesso sfasciava i teatri delle esibizioni. Uno degli scopi era infatti di abolire la distanza col pubblico. Una delle leggende ricorrenti era che i cantanti erano diventati tali dopo essere stati semplici spettatori che poi erano saliti sul palco. Per esempio Sid Vicious dei Sex Pistols. Era la versione punk della storia dell’uomo comune che fa carriera.

Nacque una stampa alternativa di piccoli fogli scritti e distribuiti dai punk, per reagire agli articoli ostili che uscivano sui giornali normali. Tutto ciò serviva anche a dimostrare che sia la musica sia la stampa poteva essere fatta in proprio a poco prezzo, senza dover ricorrere all’industria discografica. I giornali erano stampati male e pieni di errori, così come la musica era di non musicisti, ma questo diventava un pregio perché dimostrava l’autenticità e l’urgenza di una produzione fatta per una sorta di guerra come un bollettino dal fronte. Anche i disegni e i caratteri tipografici erano anarchici, come le scritte dei graffiti con le bombolette o le composte di ritagli di giornali come lettere anonime di ricatto. Il messaggio era: fatelo da soli, si può fare senza essere condizionati da nessuno. Anche il nome punk, significava schifoso, marcio, senza valore.

Sebbene il messaggio che le sottoculture veicolano è di rottura e, come nel caso dei punk, è il caos stesso, di fatto all’interno della sottocultura stessa ogni cosa è coordinata al suo fine generale con molta regolarità. Per esempio la cultura hippy costituiva una intero sistema di vita alternativo. Gli oggetti selezionati da una sottocultura esprimono un atteggiamento verso la vita come quelli di qualsiasi cultura antropologica, come espressione dei loro valori fondamentali. Per esempio gli skinhead adottavano stivali, bretelle e capelli rasati perché esprimevano durezza, mascolinità e essenza della classe lavoratrice, magari in contrapposizione agli hippy, considerati deboli ed effeminati.

I punk a loro volta portavano abiti che erano l’equivalente del linguaggio blasfemo. Vestiti di caos, producevano una musica che voleva essere rumore rispetto alla vita come orchestrazione e all’armonia o crisi dell’armonia della fina degli Anni Settanta. Le spille di sicurezza e i sacchetti della spazzatura volevano significare la povertà materiale, o vissuta veramente o esagerata, o imitata per simpatia, e indicava anche la povertà spirituale della vita quotidiana: uno stomaco vuoto e uno spirito vuoto, una vita vuota. Si metteva in evidenza l’aspetto sgradevole e sfigurato del capitalismo, e le catene e l’armamentario sadomaso si potrebbero persino interpretare  come  il simbolo delle ristrettezze ideali offerte dalla società alla vita dei giovani.

Naturalmente ci sono anche aspetti da discutere. Per esempio: che cosa voleva significare la svastica? Esprimeva un interesse verso la Germania, che era stata il nemico per eccellenza, si riferiva anche ad un periodo pieno di simboli e di storie che potevano assumere dimensioni mitiche. Ma per i punk perdeva il suo significato di nazismo. In genere i punk non avevano simpatia per l’estrema destra. Anzi i punk erano contro alcuni momenti di ritorno del razzismo a metà degli Anni Settanta. Interrogata sul perché portava una svastica una punk rispose: perché ai punk piace essere odiati. Vediamo quindi che la riconversione degli oggetti implica anche uno svuotamento del significato originale per assumerne uno contingente, lasciando però la possibilità dell’ambiguità.

D’altra parte tutta l’estetica moderna va verso la valorizzazione del processo rispetto all’oggetto, della pratica significante rispetto ai prodotti significati, e quindi del lavoro di elaborazione sul significante, privilegiando anche la frattura, la contraddizione rispetto all’unità e all’interezza. Lo stile punk contrappone lo strappo alla t-shirt, lo sputo all’applauso, il sacchetto della spazzatura al vestito, l’anarchia all’ordine. Pur essendo sovversiva però tende ad essere coerente nel volersi porre al di là della comprensione della gente comune. Erano coerenti nel voler essere alieni e sottrarsi al principio di identità (il flusso diventa costante nel suo fluire).

L’esperienza della sottocultura ha vari gradi di intensità. Può essere la cosa più importante della vita o essere una semplice evasione di una sera o di un periodo. Perciò può essere un’uscita definitiva dal proprio contesto d’origine, oppure un modo per riadattarsi ad esso dopo lo sfogo di una serata. Inoltre stili sottoculturali differenti mostrano gradi di rottura differenti, e questo spiega anche l’ostilità fra le sottoculture. Per ciò lo stile punk fu interpretato dai teddy boys come un affronto ai valori tradizionali della classe operaia come la franchezza e il puritanesimo sessuale.

Un modo di dare senso allo stile sottoculturale è di apprezzarlo come forma d’arte, alla maniera in cui si aboliscono i confini tra  alto e basso. Invece altri ritengono di dover assimilare la sottocultura alla cultura e basta, senza esteticizzarne i prodotti, questo perché la sottocultura non vuole uscire dal suo tempo e diventare oggetto di ammirazione eternizzato, come accade per l’opera d’arte dell’estetica vera e propria, cioè l’estetica borghese.

Per altri l’innovazione stilistica è per sua natura esplorativa del linguaggio come l’arte. E quindi poiché siamo nell’ambito del simbolico, della rappresentazione e dell’innovazione, sebbene con intenti di degradazione invece che di elevazione o idealizzazione, dobbiamo ascrivere lo stile delle sottoculture alla sfera dell’arte, per lo meno dell’arte applicata. Quanto alla degradazione e degenerazione, essa si può far rientrare nella dialettica negativa di Adorno e di varie sfumature di marxismo. Ma si può far rientrare anche nell’estetica del sublime, contrapposta all’estetica del bello. Il sublime cerca di esprimere  un contenuto di pensiero attraverso la disarmonia, che per taluni è il brutto, mentre il bello esprime un ideale di armonia e dunque un’utopia positiva. Infine si può vedere soprattutto per il principio del collage, del bricolage e dell’ibridazione un’anticipazione delle teorie del riciclaggio e del mutamento di significato e di funzione tipicamente postmoderne.

Tutti i segni di identificazione e distinzione possono essere caricati di valenze positive e negative, perché proprio in quanto identità si prestano ad essere pretesto e oggetto di aggressività o di simpatia. Se voglio disprezzare qualcuno o voglio apprezzare qualcuno userò come pretesto proprio ciò che egli è. La sua identità diventa così un insulto, non perché sia in sé disprezzabile. Il razzismo è solo un pretesto per indirizzare l’aggressività.

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