Visiocrazia 2. Visione e pregiudizio.

This Is My Substitute for Pistol and Ball neg.1 jpgLeonardo Terzo, This Is My Substitute for Pistol and Ball 2, 2012

Uno degli argomenti con cui, a partire da F. R. Leavis (Mass Civilization and Minority Culture, 1930) si giustifica il disprezzo della cultura di massa è l’offrirsi di questa ad una fruizione sensoriale, prevalentemente visiva, fondata sull’immagine, rispetto a quella linguistica e letteraria, fondata sulla parola. In effetti la percezione sensoriale, a partire da Eraclito e dai pre-socratici, è insieme vanto dell’empirismo e oggetto di diffidenza.

Ab antico peraltro, si è instaurata tra i sensi una gerarchia che affida alla vista il primato della strumentalità cognitiva, per cui il pensare è stato concepito in termini di visione. Ma la vista, oltre che sonda sensoriale della prassi interattiva quotidiana, e pre-condizione dell’attività ermeneutica, è sempre stata anche la guida visionaria di ogni immaginazione mitica.

La modernità invece sposterebbe l’accento della produttività gnoseologica dai sensi al linguaggio e, pur conservando metafore come “visione del mondo”, “punto di vista”, “lo specchio e la lampada” e altre, sposta i suoi interessi dalla contemplazione al discorso. Questa idea, come spesso è accaduto con fenomeni già presenti nella modernità, ma non ancora pervenuti ad occupare un posto di primo piano nell’attenzione dei contemporanei, potrebbe considerarsi lo sbocco postmoderno nell’evoluzione di un paradigma epistemico latente.

Infatti l’esempio dell’adozione della prospettiva nella pittura rinascimentale, come razionalizzazione della vista in consonanza con gli altri procedimento epistemologici, dimostrerebbe che l’egemonia di questo senso assume forme diverse nella Storia. E dunque ci si può interrogare sulla forma attuale di tale egemonia, per esempio in rapporto al relativismo, alla volontà di potenza, alla condizione politica, prendendo spunto da una rassegna di opinioni curata da D. M. Levin in Modernity and the Egemony of Vision, 1993.

Per Heidegger, Horkheimer e altri, a causa dell’accrescimento della mediazione tecnologica, nella società di massa i sensi umani si starebbero indebolendo. L’egemonia della vista starebbe esaurendosi a vantaggio di un orizzonte ermeneutico fondato sulla conversazione (Gadamer), la comunicazione (Habermas), la partecipazione, l’ascolto (Levinas). 

Per Habermas il paradigma conoscitivo implicato dalla vista favorirebbe l’oggettivazione delle cose osservate, e porrebbe il soggetto o nella posizione dominante di osservatore, o in quella sottomessa dell’oggetto osservato. Peraltro, come sostiene Nietzsche, nessun punto d’osservazione è fuori dalla Storia, anche se la sua proposta di moltiplicare le prospettive non sfugge alla concezione “visiocratica”.

Heidegger ritiene invece che, a causa dello sviluppo tecnico, l’egemonia visiva dell’episteme si imponga nell’età contemporanea in maniera forte, con severe chiusure, restrizioni e distorsioni. Perciò, nell’ontologia dominante nel mondo attuale, l’essere è ridotto all’essere rappresentato. È il passaggio dal sesso alla pornografia. La rappresentazione è sempre esistita, ma la novità sta nel fatto che ora essa è diventata l’essenza dell’essere. Ogni cosa non può più semplicemente essere, ma è nel modo in cui è vista o rappresentata da un punto di vista. È il passaggio dalla verità (oggettiva) all’autenticità (soggettiva) in letteratura, cioè a dire la consapevolezza della perdita dell’origine, messa in moto dal pensiero platonico, secondo il post-strutturalismo.

Prima di Platone l’essere è una presenza che afferra l’uomo e lo lega a sé, e non uno spettacolo da osservare o intuire. Perciò Heidegger si rivolge ai greci proprio per trovare uno spiraglio verso una visione che non sia volontà di potere. Per Foucault ciò che importa sono gli aspetti sociali e politici di questo riduzionismo ontologico. Il progetto dell’illuminismo, per lui è stato sopraffatto dalla capacità di controllo tecnologico da parte del potere. Tutto è compattato nell’episteme: le tecnologie della produzione, della significazione e del sé, spingono tutte verso condizioni di normalizzazione e totalizzazione soggiogante. È il sistema delle istituzioni amministrative, delle pratiche disciplinari, organizzate da una razionalità universalizzata.

Per Derrida lo sviluppo tecnologico rafforza il dominio della vista, che dalla filosofia trapassa nella politica della cultura. Heidegger, Foucault e Derrida, pur facendo risalire tutto al platonismo, vedono nella modernità una modalità nuova e più incisiva della visiocrazia. Poiché, secondo Marx, la storia umana ha educato anche i sensi, Marcuse ritiene che le nuove pratiche culturali creeranno nuove sensibilità. Secondo Hans Bloomenberg, se nella tradizione filosofica le metafore legate alla luce e alla vista veicolano un’idea di conoscenza e libertà fino all’Illuminismo, lo sviluppo tecnico degli strumenti che mediano la visione del mondo moderno dissocia la vista dalla saggezza e dalla verità e la collega invece ad una visione coartata e prefabbricata, complice di forze che ci immergono in un nuovo tipo di oscurità.

Cartesio combatte l’illusione del visibile e cerca di costruire la conoscenza su schematismi mentali che separano la mente dal corpo, la conoscenza dalla percezione e dall’immaginazione: è la ragione che deve produrre un nuovo tipo di chiarezza, interiore e intuitiva, quella delle idee distinte. Così la vista stessa diventa una costruzione della ragione. Tuttavia si può opinare che ci sono aspetti della visione che non sono riducibili al pensiero, e a sua volta il pensiero può operare in condizioni limitanti, che il razionalismo non capisce.

Vi sono però anche idee opposte sulla responsabilità della visiocrazia. Per esempio, poiché altri filosofi propongono teorie della conoscenza che integrano visione ed esperienza pratica (Dewey), visione e discorso (Rorty), o propongono modi diversi di esperire il mondo, non fondati sulla teoria e sull’oggettivazione, si può sostenere che non è il primato della visione che reifica la soggettività, ma una limitata concezione del pensiero, che invece la vista può ampliare. Hegel non attribuisce la reificazione al dominio della vista, che è invece concepita come una complessa fusione di livelli di consapevolezza. Ma ad una tendenza della riflessione cosciente, prodotta da un desiderio egocentrico.

Nietzsche rifiuta il privilegio della vista e il suo uso come strumento di volontà di potenza, e gioca invece sul rapporto tra luce ed ombra, chiarezza e oscurità, presenza e assenza, manifestazione e nascondimento. La vista deve osare confrontarsi con la visione dell’abisso, costituito dalla mancanza di fondamento.

In rivolta contro l’eredità cartesiana, anche Sartre e Merleau-Ponty denunciano l’epistemologia intellettualistica, basata sulla distanza dall’oggetto osservato del soggetto auto-riflettente che si pone come spettatore. Entrambi sono influenzati dall’intenzionalità di Husserl, che abolisce la distanza tra soggetto e oggetto, e costringe a rivedere le teorie tradizionali della rappresentazione. Peraltro Sartre non vede possibilità di redimere l’effetto alienante e aggressivo della vista. Merleau-Ponty cerca invece di dare nuove basi alla funzione della vista in un prospettivismo che rifiuta sia il riduzionismo empirista,  che il narcisismo trascendentale dell’intellettualismo. Cerca così una nuova ontologia della visione in un’intersoggettività dialettica diretta al mutuo riconoscimento. Questa concezione sembra peraltro uscire dai limiti dell’umano e dall’idea di visione.

Levinas è un altro filosofo che critica lo sguardo come strumento di potere e reificazione dell’altro. Ma rielabora le possibilità dello sguardo come “alterazione etica della sensibilità”, cioè come predisposizione etica al rapporto con l’altro, che precede ogni categorizzazione e identificazione mediata dalla conoscenza. Vedere l’altro in faccia, secondo Levinas, innesca un’esigenza etica che trasforma la vista in contatto: una carezza dell’occhio.

A seguito di questa rapida rassegna, mi permetto di osservare che, come tutti gli strumenti, lo sguardo è una facoltà neutra: può portare all’aggressione o alla solidarietà. L’oggettivazione è inevitabile e necessaria in quanto è proprio il riconoscimento dell’alterità, ovvero è la non identificazione che permette il contatto e la relativa intimità dell’amore, che vale appunto perché identificazione oggettivabile in un altro e nella sua oggettività corporea e non in noi stessi. Se non sentissimo la diversità dell’altro non potremmo desiderarlo. L’amore consiste proprio nel cavalcare e scavalcare il confine tra possibile negativo che volge al positivo. L’altro accresce anche quando è minaccioso, e implica minaccia e alterità anche quando è unito a noi: di volta in volta costruiamo i rapporti e la storia dei rapporti.

Ragionare per condizioni assolute di alterità o identità è il massimo dell’essenzializzazione metafisica. La vita è proprio un continuo movimento o passaggio metamorfico da uno stato all’altro. Ci si può  muovere e trasformare solo da una condizione all’altra. Quindi la condizione della vita è il percorso di metamorfosi e determinazione e indeterminazione ontologica a cui non si sfugge fino alla morte. L’altro perciò è anche il nostro divenire, ed è assurdo vederlo sempre come oggetto negativo: è certamente oggetto, ma aperto ad un accostamento e ad un’assimilazione di qualsiasi tipo, anche distruttivo.

Inoltre se l’educazione prossemica riguarda tutti i sensi, lo sguardo sembra il più spirituale. Anzi andrebbe considerato che il suo primato sta appunto nella distanza, che rende meno intrusivo il contatto, e quindi è primario perché è preliminare. Ciò che è decisivo è la fenomenologia spazio-temporale dell’uso dei sensi.. Tutti i sensi possono essere aggressivi. Tutti i sensi sono usati per tutti gli scopi, e considerare la vista come massimo strumento di dominio significa non considerare per esempio il tatto come strumento di tortura.

La televisione tra i mass media è preceduta dalla radio che fa uso dell’udito, e i romanzi popolari venivano letti in famiglia con ascolto collettivo. Non sono mai i mezzi che determinano i fini etici; ne possono solo modificare l’espressione e l’articolazione. Di conseguenza la vista non è  strumento degradante della cultura di massa, ma senso che contribuisce alla fruizione di ogni livello di cultura e all’ideale dell’opera d’arte totale.

La vista inoltre è reciproca: se tutti guardano, tutti sono soggetti e oggetti allo stesso tempo. Quindi non può esserci dominio a causa di essa. Se il dominio c’è è per altre circostanze, non perché ci si guarda. Se le altre circostanze implicano tale dominio (carceriere e incarcerato) tutti i sensi contribuiscono ad esso, e anzi in tale rapporto la vista è il meno coercitivo e violento.

I capolavori dell’arte antica erano percepiti e osservati con la vista, come i fumetti e la televisione, come i quadri del Rinascimento ecc. Ciò che cambia nella società moderna sono le circostanze della visione e gli oggetti guardati. Quanto alla rappresentazione, gli iconoclasti sono i precursori dei critici della società di massa; e la televisione mi fa vedere il disastro del grattacielo Pirelli meglio di come l’ho visto dal vero quando ero davanti alla stazione di Milano, così come il telescopio mi fa vedere di più sulle stelle.

Non ci sono pensieri e sguardi non mediati dalle circostanze. L’importante quindi non è cercare un’impossibile immediatezza, ma capire le circostanze dell’osservazione. Allora se la visione televisiva è mistificante, sono le condizioni politiche dell’elaborazione dei programmi che mistificano i messaggi, non lo strumento della comunicazione. Dire, come fa ad esempio Baudrillard, ma anche molti altri,  che la televisione falsifica indipendentemente  da chi la possiede e la usa, significa rassegnarsi all’uso peggiore di essa, fatta appunto dai tirannelli mass-mediatici.

 

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