Emporio Porpora, Milano, Università Bocconi, Concorso di matematica, 2013
Nella prassi della fotografia c’è una circostanza peculiarmente significativa, che deriva dall’esclusione del mondo restante, in contrapposizione alla scelta della porzione di realtà da inquadrare e documentare. Nel momento dell’esclusione del resto, il mondo diventa totale nel particolare.
È ciò che tutta l’arte e la vita fanno. Noi non viviamo tutte le possibilità che la vita ci pone davanti: la vita è solo quel poco che riusciamo a vivere scegliendo. Così pure l’arte vuole significare l’universale attraverso un particolare ritenuto significativo. Quando fotografiamo, l’inquadratura scelta è il mondo nel momento e nei limiti del nostro sguardo attraverso la macchina. Allora ciò che si vede è meno importante del fatto che si vede. Questo è il mondo che ci è dato vedere, cioè vivere. L’abilità fotografica, tecnica o artistica che la si voglia intendere, è accettare il visibile. La fotografia in questo senso forse è l’analogon della filosofia esistenziale. Nel corso del tempo non sappiamo esattamente cosa vedremo e la libertà che abbiamo va utilizzata, ma alla fine sappiamo che siamo scagliati in questa condizione, senza un a priori di valori da guardare.
In questa consapevolezza si sviluppa una bulimia del fotografare, che fagocita tutto il fotografabile. L’invasione di fotografie che si accumulano intorno a noi è la nostra fame di vita, quando non sappiamo più discriminare tra ciò che è meglio e ciò che è peggio. Si vuole catalogare e conservare l’immagine di tutto, perché la necessità della scelta ci ha resi consapevoli che non sappiamo scegliere. La scelta è il metodo supremo della fotografia, ma non ci sentiamo più o non ci sentiamo mai all’altezza della responsabilità di scegliere. Perciò scattiamo compulsivamente: finché c’è scatto c’è speranza, o c’è vita.
Fotografare è vedere e conservare in attesa di una rivelazione di senso. Fotografare è scegliere, ma scegliere è una dannazione.
Leonardo Terzo