Cosa fa chi fotografa 6. Benjamin: glossario speculativo

IstanteEmporio Porpora, Istante, 1 marzo 2013, ore 16,37.

Come glossario speculativo, riassuntivo, possiamo cominciare dalla serie di antinomie teoriche che la fotografia ha prodotto. La prima è la separazione tra mezzo tecnico, che presiede a compiti di documentazione, e mezzo artistico: la fotografia non potrebbe essere arte perché è un mezzo meccanico, copia e non crea, ma per Benjamin proprio questo ci fa capire che anche l’arte muta nel tempo, proprio a causa del variare dei mezzi.

La peculiarità della fotografia, e poi del cinema, è che il tipo di arte che essi producono consiste nel valorizzare la realtà così com’è. E questo nonostante l’equivoca posizione di quei fotografi che cercano di imitare la pittura, il cosiddetto “pittorialismo” della fotografia. Al contrario del pittorialismo, che cercava di adeguarsi alle poetiche idealizzanti ed “elevate” dell’arte del tempo, la fotografia nuda si disinfetta dalla falsa retorica. Una ripulitura dal trucco, che fa emergere la carica rivoluzionaria che la documentazione della realtà porta nella concezione dell’arte stessa, iniettando in essa un potenziale politico. La fine della vecchia aura è la fine della presunta eternità dell’opera d’arte, inutile perché irraggiungibile e quindi inutilizzabile nel presente, cosa che la riproducibilità invece ora permette

È anche un modo diverso di guardare e di vedere ciò che è sempre stato davanti agli occhi di tutti, ma inosservato. Paradossalmente l’aggiunta che la fotografia e il cinema danno alla vita umana è la possibilità di esperire coscientemente ciò che avevano sempre esperito in modo per così dire “inconscio”. Questo è forse il vero significato del famigerato “inconscio meccanico” di Benjamin. Perciò il fascino della fotografia è di farci capire chi veramente siamo, quasi costringendoci a farlo, quando ci ripropone quell’altrettanto famigerato  hic et nunc che nella nostra realtà e nella realtà del mondo è già passato.

È perciò che emerge con forza, oltre la rievocazione del passato, l’effigie dei morti. Le fotografie dei nostri genitori e dei nostri nonni, ma anche delle nostre vacanze di qualche anno fa, quando avevamo altri amici e un’altra fidanzata, risuscitano in noi quella parte della nostra vita che, con loro e come loro, non ci sono più. Diventano uno strumento aggiuntivo della memoria che ora si arricchisce infinitamente.

Il merito della fotografia che Benjamin chiama “magia” sta nella fedeltà e nella compiutezza, e non nell’invenzione. E tuttavia la macchina fotografica ha bisogno dell’uomo che “animi” l’inconscio meccanico, che a questo punto definirei come una sorta di scarica elettrica che collega macchina, uomo e mondo fotografato. Lo scatto è un lampo che assorbe, per usare un verbo caro a Benjamin, mondo, macchina e fotografo nel risultato finale dell’immagine, impronta lasciata da un attimo di luce, di vita e di realtà.

Il merito della macchina è di essere indifferente, e dunque “equanime”; il merito della luce è di appalesarsi alla vista, il merito del fotografo è di fiutare il momento e tentare la combinazione. Ciò che i fotografi di volta in volta fiutano e scelgono si dipana nel tempo e forma la storia della fotografia, non come strumento, ma come mondo fotografato, arte e documento insieme.

Tutte le cose umane hanno, in primis o in subordine, una modalità estetica, ed è quindi inevitabile che le persone che hanno vocazione estetica cerchino e trovino la qualità e la modalità artistica in ogni cosa o luogo: l’esempio è Edward Weston, con Excusado, 1925,  che vede nella forma del gabinetto qualcosa paragonabile alla Nike di Samotracia. Del resto la forma degli oggetti etnografici segnala il “gusto” delle varie epoche, così come, per converso, i titoli dei romanzi di Jane Austen o delle commedie di Goldoni, segnalano i valori in discussione nella loro epoca, nel loro contesto storico-geografico.

La  fotografia fissa in istanti evenemenziali il divenire lento delle epoche. Essi possono dirci poco, oppure molto, e questo perché tutti gli strumenti, scientifici, sociali ed estetici, pur significativi in sé, in realtà funzionano nel loro ambito perché noi li interpretiamo inevitabilmente sullo sfondo di una totalità culturale di cui siamo in varia misura consapevoli. Il termine “contingenza” che è un altro modo in cui possiamo denominare l’hic et nunc tanto citato da Benjamin, può significare: “insufficiente”, oppure può indicare quella magica significatività che colpisce proprio perché concentrata nell’attimo che scandisce la modernità. La riproducibilità è il rimedio che salva e redime l’istante dalla sua precarietà cronologica naturale.

Anche l’aura è qualcosa che si forma, svanisce e si riforma con altre modalità, magari come “traccia” di vissuto in ogni epoca. Talvolta l’aura è sinonimo di hic et nunc, o di cronotopo; oppure è una qualità o un’ombra da cui emerge la luce delle prime fotografie; oppure è un’empatia visiva o solo emotiva che si stabilisce fra chi guarda e l’oggetto osservato.

Si verifica per attenzione, ma anche per distrazione. Ma a differenza della “traccia” poststrutturalista di qualcosa che non c’è più, ma è irrappresentabile perché è proiettato in un futuro che non c’è ancora, la fotografia come traccia di un momento e di una situazione esperita la rende presente e utilizzabile.

Il vissuto si fa visto, ma ancora e di nuovo visibile. E su questo Benjamin, tra intuizioni profonde e profezie imprecise, ci aiuta a riflettere.
Leonardo Terzo

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