Fotografia, Dada e realtà.

Hic Sunt Group, Beyond Jouissance, 2013

Hic Sunt Group, Lau. Al di là del piacere e del dolore, 2013

Rosalind Krauss (Teoria e storia della fotografia, 1990) nota che la storia dell’arte si è spesso orientata sulla base di due criteri antinomici: disegno e colore. Il primo si fonda sulla riflessione e la precisione, l’altro sulla percezione sensibile e l’immediatezza, per esempio: Classicismo e Romanticismo.

Questa dicotomia a mio parere viene superata dal Dadaismo che anticipa l’arte concettuale e il postmodernismo, nel senso che abolisce entrambi i poli e, sebbene come tutte le avanguardie sembri orientato verso una negazione della convenzionalità e della precisione, in realtà è architettato su un fondamento di pensiero che si spinge nell’immateriale, non è interessato alla percezione sensibile, al limite della visibilità stessa, diventando riflessione pura, teoresi di se stessa.

In che modo la fotografia, sebbene in modo occulto, partecipa a questo svuotamento della materialità fisica in cui alla fin fine le idee si dovrebbero pur “precipitare” in qualcosa di concreto per diventare arte? Si potrebbe ipotizzare che questa dualità si affacci sin dal sorgere della fotografia tra riconoscibilità e precisione del risultato visivo da un lato, e inutilità dell’elaborazione umana dall’altro, in una cosa che è prodotta essenzialmente dalla macchina, dalla luce, dalla superficie chimica su cui l’immagine si forma. Perciò adombra un estraniamento che fa paura.

A mio parere il ready made stesso non è che la spia di un parallelo procedimento di svuotamento della creatività tradizionale e della materializzazione, che viene delegata all’industria e alla quotidianità. Cioè a qualcosa che c’è già, perché l’artista dada non si fa coinvolgere, né con la materia, né con l’arte; egli la pensa soltanto, e offre ai consumatori della tradizione il feticcio del ready made, un osso materiale con cui tenere impegnata la loro sensualità e visceralità, mentre il dadaismo concettualizza. Così l’immagine fotografica attira il fruitore con l’apparenza della realtà, mentre la realtà è passata al momento stesso dello scatto.

La fotografia ci mostra non il creato da noi, ma l’essere stato di noi, non ciò che noi abbiamo fatto, ma ciò che noi siamo stati. La fotografia ci mostra il fantasma di ciò che eravamo, ma purtroppo non siamo più, affinché si possa continuare a vivere rivivendolo. Più la fotografia è precisa, più è sminuita la sua concretezza, tutta visiva. Ma anche la vita reale a sua volta è sempre memoria, perché il presente non l’abbiamo ancora capito e metabolizzato, e crediamo, o sappiamo invece, di essere il precipitato del passato, perciò la fotografia è il nostro Ade, dove sopravviviamo come ombre fotografate.

Il destino della fotografia utilitaria che finisce poi nel museo, assumendo l’autoriflessività della funzione estetica, è proprio ciò che Duchamp realizza con la fontana-orinatoio per restaurare quell’aura dell’unicità che per Benjamin la fotografia, in quanto riproducibile, ha abolito.

Forse suo malgrado, Duchamp dimostra che se la riproducibilità ha abolito l’aura storica dell’arte, il mercato dell’arte è così potente che è in grado di assorbire senza danni lo scherzo ermeneutico della “Fontana”, appunto perché, e soltanto in quanto, finisce inserita nello spazio espositivo di un museo. E la cosa è così “irreversibile” che, quando un visitatore di una mostra manda in frantumi l’originale della “Fontana” (e molti non lo sanno), esso viene subito sostituito da un altro esemplare, perché, diversamente da quanto sembra credere Krauss (p. 83), la storicità dell’oggetto è ininfluente, e quello che conta è l’originalità dello scherzo.

In questo modo anche Benjamin viene “risarcito” perché l’evento “artistico” si riproduce tramite uno qualsiasi dei tanti orinatoi prodotti industrialmente. Il mercato non permette la perdita di ciò che Duchamp forse riteneva un feticcio, l’osso materiale che è l’opera, ma che per il mercato è l’immortale “indice” di fronte al quale il visitatore della mostra vuole compiacersi o indignarsi, ma che comunque vuole “contattare”, come quando passa davanti alla Gioconda al Louvre.

Il Dada è così multiforme e trasversale tra senso e non senso, materialità e concettualità che, come del resto teorizza da tempo l’estetica modernista da Opera aperta (1962) in poi, la polisemia diventa poli-esistenza, non prevedibile dagli autori, nel frattempo ermeneuticamente e storicamente morti.

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