Fotografia e linguistica: un matrimonio sprovveduto.

Ritmo visivoLeonardo Terzo, Ritmo visivo, Anni 70 circa.

I fotografi che diventano artisti non perdono l’opportunità (o il vizio) di spiegare in parole cosa è stata, è e sta diventando la loro pratica, che non si può più chiamare semplicemente fotografia. Poiché questa mutazione avviene  più rapidamente tra gli anni 60 e gli anni 80, risentono fortemente della fortuna che in quegli anni stavano avendo la linguistica, la semiotica e lo strutturalismo. Per usare tali discipline come strumenti interpretativi della fotografia e delle sue applicazioni, assimilano la fotografia stessa alla lingua o linguaggio.

Per curiosità ricordo che persino Pasolini, in una delle sue uscite più giocose e infelici, si avventurò ad interpretare il gioco del calcio coi concetti della linguistica: le azioni come frasi… ecc.

Gli scritti esplicativi dei fotografi spesso prendono spunto dall’affermazione di Barthes che la fotografia è un messaggio senza codice. Con questo egli intende che non vi è un significato di ciascuna fotografia stabilito convenzionalmente in rapporto ai termini di un dizionario come in una lingua, che è un sistema costituito appunto da una grammatica, una sintassi e un vocabolario codificati. Infatti il rapporto tra immagine, anche non fotografica, e significato (esprimibile in parole), non è convenzionale e arbitrario come nel rapporto tra significante e significato linguistici, ma è iconico, cioè la fotografia non significa, ma rappresenta.

Ciò avviene senza alcuna arbitrarietà, per mezzo della somiglianza con l’oggetto rappresentato.  Senza codice perciò vuol dire che il significato della fotografia non c’è. E quando si dice che un fotografia significa, si sta usando un linguaggio figurato, una metafora; e si vuol dire solo che rappresenta ciò che si vede, e non che ha un valore semantico o semiotico. Anche se ci sono stati studiosi che invece hanno tentato di prefigurare un “codice” per la fotografia, ma con risultati approssimativi, perché è di fatto impossibile.

Naturalmente è lecito cercare di capire cosa diventa la fotografia quando è sottoposta al mutamento funzionale verso l’arte. Come per esempio fa Ugo Mulas (La fotografia, Einaudi, 1973), con grande sincerità e onestà. Quando dice che egli si è deciso a fotografare il materiale fotografico stesso per farne un’analisi, non sappiamo bene come quella fotografia possa essere un’analisi, perché l’analisi è una riflessione discorsiva. La fotografia sarà invece un’immagine, su cui si potrà discutere, analizzandola a parole, e persino filosofare su di essa, ma non con immagini.

Oppure quando Mulas si chiede che significa usare il grandangolo, sta cercando di capire a che serve il grandangolo e che effetti può o non può ottenere nel processo tecnico del fotografare. Forse sinora l’ha usato senza sapere perché? “Usare il grandangolo” è un’azione, non ha un corrispondente semantico che l’azione di usare il grandangolo significa letteralmente. L’azione di usare il grandangolo non è una frase di una lingua, è un fatto intenzionale che si realizza materialmente. Invece la frase “usare il grandangolo” ha un significato perché è una frase, e significa l’azione che nomina. Da quell’azione un osservatore può capire cosa intende fare il fotografo, ma essa ha un significato solo in senso metaforico, perché l’azione letteralmente mostra e non dice. Ciò che è fuori luogo è l’applicazione della terminologia della linguistica e della semantica.

Roland Barthes Rides AgainLeonardo Terzo, Roland Barthes Rides Again, London, Covent Garden, 2009

Questo tipo di domande i fotografi-artisti di quel periodo se le fanno in molti, ma le risposte in termini razionali non possono che essere le stesse per tutti. Il grandangolo lo possono usare tutti i fotografi e produce solo i suoi effetti meccanici che tutti sanno e nient’altro. Naturalmente, in quegli anni, anche politicamente impegnati, i fotografi che cominciano a teorizzare sul loro mestiere, finiscono inevitabilmente per denunciare i condizionamenti ideologici che l’organizzazione produttiva che si avvale delle fotografie impone.

L’ironia di volere essere nello stesso tempo linguisti e ribelli politici sta nel fatto che la linguistica (a parte Chomsky, che infatti ha una teoria linguistica sua, in contrapposizione a quella che fa capo a Saussure) nelle sue caratteristiche tecnico-descrittive non si presta alla politica, perché pone le sue radici in una fase troppo profonda della costituzione linguistica, condizionata dall’evoluzione della specie di migliaia di anni fa. L’obiettivo dello strutturalismo sono “le strutture profonde”, non la superficie del discorso.

Invece l’uso politico della lingua deriva da manipolazioni culturali più recenti, quasi contemporanee. E infatti Barthes, che è il più colto e consapevole, e si è posto queste domande prima degli altri, si accorge che si può aspirare invano al “grado zero della scrittura” (cioè non compromesso con nessun potere).

In effetti se il grado politico della lingua dovesse ridursi a zero, la lingua diventerebbe inservibile, perché non farebbe più presa sulla realtà. Ad un compromesso politico della lingua con il potere, magari reazionario, si può sostituire solo un altro compromesso, magari proletario e rivoluzionario, ma non si può sfuggire al fatto di usare la lingua in una situazione del mondo strutturata dalla lingua in modo ormai neutro in profondità, e invece in modo politico a livello superficiale, però facilmente sostituibile, come di fatto avviene nel modo di parlare quasi ad ogni generazione, sulla base dei poteri che la storia ha determinato, e continua a modificare.

Per i fotografi linguisticamente “ribelli”, la falsa ideologia della fotografia è l’idea di oggettività, che giustamente Barthes chiama col termine linguistico “denotazione”,  l’unico aspetto su cui si può concordare. Invece la parte di significato denominata “connotazione” è aleatoria, soggettiva, condizionata dal gusto e dalla politica dell’interprete, sia che parli sia che ascolti. Per altri, invece, per esempio Sekula, Kosuth, Burgin, anche la denotazione è un mito imposto dalla falsa ideologia. Ma quanto più prendono seriamente i termini della linguistica che essi usano in realtà metaforicamente, tanto più quei termini appaiono sterili, e finiscono per indicare solo quei significati che le generazioni precedenti già indicavano coi termini: espressione, emozione, composizione formale ecc.. Il più delle volte continuano a fare le fotografie che prima o poi hanno fatto o fanno anche altri, e invece di rinnovarsi cambiando le parti di mondo da fotografare, rinnovano solo il loro vocabolario interpretativo dei significati connotati.
Leonardo Terzo

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