Ricordare, rivedere, rivivere: dalle fotografie di famiglia ai “selfie”.

 Emporio Porpora, Dinner End, 2012

Sappiamo che se una fotografia è su un giornale fa parte di un reportage di cronaca; se è in un museo, diventa arte; se la teniamo nel portafoglio è la famiglia. La fotografia privata: dei propri familiari, degli amici, il ricordo dei viaggi, o di altre esperienze personali, che c’è sempre stata e ora dilaga a causa dei social network, raggiunge un momento di acuta diffusione, e discussione, con l’autoscatto, detto “selfie”, che ha diversi aspetti, anche antichi, accumulatisi nel tempo e in parallelo ai mezzi tecnici a disposizione.

In primo luogo gli autoritratti sono tipici della pittura di tutti i tempi, e non si capisce perché se è Michelangelo o Leonardo a farlo dobbiamo giustamente ammiralo, e se invece ciascuno di noi vuole riprendersi con l’autoscatto, la cosa non sembra più così normale.

Le fotografie di famiglia si tenevano in casa o, come abbiamo detto, si tenevano nel portafoglio, mentre ora si mettono in rete. Le dimensioni ridottissime degli strumenti favoriscono questa pratica, anche per farsi vedere con le celebrità del momento, persino col Papa. E che il Papa si sia fatto fotografare insieme ai ragazzi e alla gente è visto infatti benevolmente, come segno che il nuovo pontefice è rivoluzionario e va verso il popolo, accettando i gadget della cultura di massa, mentre l’autoscatto in sé è più spesso accusato di narcisismo, necessità di riempire il vuoto di identità, che la contemporaneità creerebbe in modo più devastante nei giovani. 

Queste pratiche sono il seguito in immagini della tenuta dei diari, giustamente considerati significativi e importanti, per la Storia in generale se riguardanti i grandi personaggi, e per la storia del costume e delle mentalità di un epoca, quando a tenerli era ed è la gente comune.

Quanto a vedere nell’autorappresentazione una compensazione di mancanze varie: di personalità, identità e altro, è un’ipotesi plausibile, ma che comunque attiene a fenomeni sociali e psicologici che si sono sempre verificati. E di solito critici di questo tipo ripetono le stesse osservazioni per lo più ogni volta che questi aspetti della personalità umana si ripropongono attraverso nuovi strumenti. Valga per tutti, come si vedrà più avanti, ciò che dice Baudelaire nel Salon del 1859.

La novità in questo caso non sta nell’autoscatto più facile e quindi più frequente, ma nelle nuove vastissime comunità sociali prodotte dalla comunicazione in rete e dal fatto che lo spazio significativo non è più quello geografico, e reale, ma quello virtuale e informativo. L’autoritratto perciò diventa un rito quasi giornaliero, completato dalle fotografie del cibo in tavola e altre occorrenze quotidiane, che hanno un valore informativo che va oltre il narcisismo e l’attualità. Come il reportage documenta il succedersi dei fatti di cronaca e verrà setacciato dagli storici che ne ricaveranno un senso più forte e collettivo, così le tracce indelebili del quotidiano lasciate in rete riveleranno ai posteri sia i mutamenti del costume, sia le costanti antropologiche, perché tutto cambia, ma anche no.

Di solito però si evidenziano le differenze: le fotografie di famiglia nel portafoglio si mostravano solo ad amici più intimi; ciò che è messo nei social network è invece visibile da una quantità di gente molto maggiore, che a sua volta può “salvare” l’immagine e “postarla” altrove dove vuole. La fotografia, che nasce già come mezzo di riproduzione e uscita dalla dimensione unica e privata dell’opera d’arte, diventando trasferibile su altre superfici e altri contesti, vede potenziata in rete questa peculiarità, coi conseguenti problemi di rispetto della privacy, un tempo inconcepibili. Ciò produce anche un’ulteriore frammentazione della possibile coerenza “narrativa”, coerenza che le immagini hanno infatti solo quando sono collegate fra loro, o col contesto da cui sono state tolte, dalle didascalie e dagli altri mezzi di comunicazione.

Del resto non solo la coerenza narrativa è più frammentata e aleatoria, ma la vita sociale stessa lo è, fino alla realtà di un tipo di famiglia allargata. Quindi anche la dimensione estetica deve cambiare in tali circostanze; ma non è vero che la bellezza o la perfezione siano trascurate, solo vanno intese diversamente.

Anzi si ripropone un elemento permanente della storia della fotografia, e cioè che quando il mondo sociale fotografato si allarga, il gusto si modifica, diventa più democratico anch’esso e, come sempre anche in passato, a svantaggio dell’idealizzazione e a vantaggio della documentazione: ci siamo fotografati al ristorante con gli amici e mostriamo anche quello che stiamo mangiando, perché è vero, e la registrazione di questa verità è il nuovo criterio della bellezza.

Ciò che ci interessa e vogliamo far vedere a tutti è la pietanza o la fetta di torta che avevamo davanti; sono le smorfie di allegria che lo stare a mangiare con gli amici produce in noi e in loro. Oppure i nostri hobby, i nostri gatti e i nostri cani. E siamo tutti belli perché siamo noi. Questi mutamenti del gusto a taluni possono sembrare testimonianze di vita squallida, ma sono testimonianze di vita, innanzitutto vera, allegra e non simulacro. Come le lettere e i diari di una volta, ci permettono di ricordare, rivedere, rivivere.

Leonardo Terzo

 

 

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