Che cos’è la critica 1. Interpretazione, valutazione ed evenemenzialità.

Il-bacio-della-musa-8Leonardo Terzo, Il bacio della musa, 1990 circa.

Il termine “critica” deriva dal greco “krisis”, che significa giudizio. L’uso del termine per indicare le procedure d’analisi delle opere artistiche e letterarie inizia nel ‘600, ma ovviamente ciò che si intende con questo termine esiste sin dall’antichità, basti pensare ad Aristotele, Cicerone, Quintiliano, Orazio ecc. La critica, in quanto ricezione, incide a sua volta sulla produzione letteraria (artistica in generale) stessa, in uno scambio reciproco continuo: l’analisi delle opere produce le idee critiche e le idee critiche influenzano la composizione delle opere. La lettura stessa è in nuce un procedimento critico, che poi si manifesta come opinione dei lettori, in termini di apprezzamento e commento.

Per taluni la scelta stessa di leggere un’opera è una forma iniziale di apprezzamento. E in effetti, dal punto di vista dell’industria culturale, la quantità dei lettori, ovvero di acquirenti del libro come prodotto industriale, è l’unica forma efficace di critica. Tuttavia, in senso proprio, la critica dovrebbe essere un giudizio argomentato che spieghi o cerchi di spiegare le ragioni di un apprezzamento o di un rifiuto, in modo che possa essere capito da altri, soprattutto da chi non lo condivide, così che le argomentazioni possano essere discusse e anche confutate. Il semplice rifiuto, ma anche la fruizione, se immotivati, non dicono niente sull’opera, e possono persino derivare invece dall’incapacità di capire, anche per circostanze che non hanno nulla a che fare con la fruizione stessa. Per esempio: se ho il mal di denti e non riesco a leggere il libro, questo non può essere considerato una critica negativa al libro. Oppure se leggo il libro perché me lo impone il programma scolastico e basta, anche questo non è di per sé un giudizio positivo. Questi sono esempi limite, un esempio più plausibile è quello per cui un libro possa essere comprato per moda, per fingere di essere aggiornati su un dibattito d’attualità. 

Dal punto di vista operativo, cioè per il modo di funzionare, la critica comprende due fasi: la comprensione, che richiede un’interpretazione dell’opera e produce la critica esplicativa o, se intesa in modo più restrittivo, storico-filologica; e il giudizio di valore, che è sostanzialmente un indice di congenialità tra l’opera e il sistema di valori del lettore.

Queste due funzioni tendono spesso a intrecciarsi e a sovrapporsi. La critica valutativa di solito prevale quando in una società si sente la necessità di una coesione ideologica o, al contrario, si sente il bisogno di un’eversione del regime dominante. In generale possiamo dire che nei momenti di trasformazione più profonda o più rapida, la critica diventa più militante. L’Illuminismo e il primo Romanticismo sono per esempio periodi in cui il critico, ma anche il letterato e in generale l’intellettuale, sentiva fortemente una missione pedagogica e civile. Questa fase della storia degli intellettuali finisce verso la metà dell’800. Una caratteristica negativa della critica successiva è stata prima la separazione della critica militante da quella accademica. La prima si occupava dei contemporanei e dell’attualità, e quindi tendeva ad essere favorevole alla sperimentazione e alle avanguardie. Quella accademica si occupava invece dei classici, e tendeva a rappresentare i poteri dominanti nelle istituzioni culturali. Un ulteriore cambiamento è stato l’assorbimento progressivo della critica al servizio dell’industria culturale, per cui la critica diventa sempre di più pubblicità editoriale.

Tuttavia questo è l’effetto della trasformazione della cultura stessa. Il critico è inevitabilmente funzionario ed espressione di gruppi e di valori sociali, anche quando non se ne rende conto. Non è possibile fare a meno di questo legame, ma è importante capire la natura del legame. In tempi aristocratici la funzione dell’intellettuale era quella di consigliere del principe, il quale a sua volta lo compensava col mecenatismo. In tempi di rivoluzione borghese l’intellettuale è organico ai nuovi valori illuministici e portavoce delle libertà indotte dall’economia di mercato. Dopo il 1850 l’intellettuale si crede autonomo e al di sopra delle classi, elabora il concetto di arte per l’arte, e si sente funzionario dell’universalità del sapere. In realtà questo è l’effetto del fatto che la borghesia ha consolidato il suo potere, non accetta la critica, diventa conservatrice, ed emargina gli intellettuali, ridotti alla bohème. Gli intellettuali tentano allora di farsi portavoce della classe operaia, ma o confluiscono nel partito, che infatti viene definito “intellettuale collettivo”, con un effetto di conformismo militante, o si rendono conto che il loro sperimentalismo non può essere capito dalle masse, e come gli artisti diventano sempre più elitari ed ermetici, oppure infine rinunciano alla critica indipendente e si integrano nei mezzi di comunicazione, al servizio delle varie lobby padronali.

Si crea così la separazione delle culture, alta e bassa, ovvero il modernismo sperimentale e d’avanguardia e l’industria culturale dei generi ripetitivi e formulaici. Il postmodernismo cerca di abolire questa separazione, rivalutando la cultura di massa, in un tentativo di rimescolamento dei livelli, perché tutti siamo in vari momenti della giornata fruitori di tutti i livelli di cultura da quella più sofisticata al trash. In realtà ciò è stato reso possibile dalla trasformazione del concetto di cultura, avvicinatosi sempre più al suo significato antropologico, che prescinde dal giudizio di valore, e assimila tutti i prodotti dell’attività umana, abolendo la distinzione tra arte e industria, tra oggetto estetico e oggetto etnografico. Tutto è arte a partire dalla pubblicità e nulla è arte nel senso di un tempo, ma al massimo installazione interattiva, in cui si entra e si fa un’esperienza sensibile sostanzialmente priva di ciò che un tempo era la componente intelligibile.

Tale componente intelligibile viene supplita dalla critica, cosa che in un certo senso la critica ha sempre fatto, appunto nel senso che aiutava a capire e a fruire l’arte interpretandola. Anche perché l’avanguardia, essendo per definizione originale e più avanti del senso comune, senza interpretazione non sarebbe stata capita. Ma Les demoiselles d’Avignon,  per fare l’esempio del quadro di Picasso che inaugura il cubismo, una volta commentato e spiegato dai critici, viene contemplato da tutti quelli che lo vedono con una nuova consapevolezza acquisita, che permette di ripetere e rinnovare l’esperienza della sua conoscenza e della sua contemplazione. Ora invece, accanto alla parte interpretativa e di commento a posteriori, si aggiunge o addirittura si sostituisce una parte che è soprattutto promozione e pubblicità. La critica, oltre a interpretare, agisce in anticipo per produrre le condizioni di un “evento”. La parte critica quindi non segue, ma si manifesta in contemporanea o precede l’opera, così che il tempo e il luogo della sua esposizione vengono incorporati nell’opera stessa e il tutto diviene “performance”. Quello scambio che avevamo menzionato all’inizio fra critica e poetica implode e si fa costitutivo. È l’insieme di esposizione, esperienza e promozione critica che ne fa un evento complessivo e performativo. Questo carattere performativo, peculiare dell’arte postmoderna, è qualcosa che potremmo chiamare “evenemenzialità”, cioè la capacità di suscitare un interesse e attrarre attorno a sé una comunità di fruitori immediati, che partecipano alla messa in scena o meglio alla “messa in evento”.

L’arte non è più solo qualcosa (un valore o un significato) che si incarna e si fissa in oggetti materiali, ma un’esperienza che si vive una volta per tutte, che non può più ripetersi, ma può solo collocarsi nella vita, ed al massimo essere ricordata nella memoria, invece che essere eternizzata per i posteri. Per il modernismo che reagiva alla cultura di massa, la ricerca autoriflessiva dell’arte portava all’essenza della sua funzione e della sua natura, per cui per esempio si scopriva che l’essenza della pittura era stendere una materia colorata su una superficie, abolendo ogni rappresentazione, ogni figurazione e ogni aspetto “teatrale” dal quadro. Nasce così l’arte astratta fino ad arrivare ai monòcromi, cioè quadri di un solo colore uniforme. Ora invece il postmodernismo sceglie proprio la teatralità nel senso di esecuzione teatrale, e mischia intenzionalmente l’arte con gli aspetti di ogni vissuto culturale, ma anche con la natura biologica dell’esperienza umana. E l’esperienza biologica è viva, vitale, ma anche passeggera, precaria o addirittura effimera. La body art ne è un esempio, ma la corporeità invade ogni forma d’arte, appunto per legare l’espressione alla materialità dell’artista come essere effimero nel tempo.

Per tutte queste ragioni la forma dei musei moderni sta cambiando e la scenografia del luogo espositivo diventa quasi più importante e significativa di ciò che viene esposto, vedi per esempio la Tate Modern a Londra. E il luogo dell’esposizione si estende anche alla tecnologia della rete virtuale, che dà luogo alla videoart.  Nel complesso possiamo dire che è la parte istituzionale dell’arte che scopre e rafforza quella capacità promozionale che un tempo era svolta dal mecenatismo, e che in un’economia di mercato è svolto dalle istituzioni governative insieme alle case d’asta e ai grandi mercanti. L’organizzazione presiede alla distribuzione, e la distribuzione richiede grandi investimenti. Artisti come Cattelan o Damien Hirst per esempio, non sono solo individui, ma organizzazioni e fondazioni, che producono le opere e la loro promozione nel mondo.
(continua)

Leonardo Terzo