La politica culturale è fatta da tutti, ma lo sforzo dei singoli è meno efficace dell’azione dei gruppi sociali e delle istituzioni che dei gruppi sono strumento attivo e concreto. Nelle società meno democratiche le istituzioni hanno precise direttive burocratiche che decidono le linee e le finalità della politica della cultura.
Anche nelle società più liberali tuttavia le istituzioni sono strumenti di orientamento degli indirizzi culturali, e si dividono in quelle sotto diretta direzione governativa, quelle favorite dalle maggiori imprese sul mercato dell’editoria e delle arti, e infine quelle che sostengono gli sforzi degli strati sociali marginali per accedere alla scena della cultura.
Si confrontano qui due procedure di legittimazione dei fatti culturali e di istituzionalizzazione della loro presenza nella lotta per l’egemonia. La produzione intellettuale ed artistica e il loro consumo sociale sono inizialmente promossi in senso generale e generico dall’alfabetizzazione e dall’educazione dei cittadini in tutti i settori del sapere.
In senso specifico invece, come produzione professionale che trova posto sui mercati della cultura dove viene acquisita e consumata dai fruitori, richiede un impiego di capitale culturale e finanziario, investito nella produzione, nell’esposizione ed infine nella commercializzazione delle idee e delle opere.
Questa fase di divulgazione e diffusione mercantile viene da molti ritenuta predominante, perché se le opere non hanno mercato la loro esistenza resta invisibile. Inoltre il linguaggio dell’arte non è esplicito, e viene reinterpretato dai mediatori, culturali e commerciali insieme, per il pubblico degli acquirenti. I meriti di un’egemonia culturale qualsiasi vengono perciò attribuiti alla forza della promozione, la quale dipenderebbe da una consonanza ideologica tra la produzione e le agenzie intermediare del consumo.
Gli acquirenti comprano o visitano le mostre dove trovano ciò che capiscono, e capiscono ciò che incarna i loro interessi e la loro visione politico-ideologica. Quest’ultima a sua volta è manipolata coi metodi della pubblicità, dai mercanti istituzionali pubblici o privati volti al mantenimento e al perseguimento di un profitto finanziario e politico insieme.
Questa interpretazione della funzione dell’arte in termini di rapporto con le istituzioni dei gruppi sociali e della loro politica culturale è per lo meno problematica, e per me non sempre convincente.
Poiché l’evoluzione dei gusti e delle egemonie culturali nel tempo è naturale e innegabile, questi mutamenti possono essere sia il risultato di cambiamenti sociali e delle condizioni di vita dei consumatori, sia l’effetto dell’instabilità dei gusti generazionali. (Per non parlare della rivelazione epistemologica. )
Resta il fatto che il consumo dell’arte cosiddetta d’avanguardia è tendenzialmente un consumo d’élite, che, spesso se non sempre, avviene in ritardo rispetto ai tempi dell’artista (vedi Melville o Van Gogh).
Infatti questo tipo di indagini sull’evoluzione del mercato culturale tende a soffermarsi sui mutamenti dei gusti elitari, trascurando la maggior parte dei consumi popolari e delle classi medie. Le opere di Van Gogh diventano famose quando una collezionista dell’élite industriale di Amsterdam acquista i girasoli. Si sparge la voce, e tutti i ricchi collezionisti vogliono una versione dei girasoli, e poi anche le altre opere, ereditate, custodite e promosse dalla cognata Johanna vedova di Theo. E infine buon ultimi arrivano i musei.
La domanda è: quali valori delle élite finanziarie e industriali Van Gogh ha elaborato e presentato, seppure in anticipo sull’evoluzione del loro gusto?
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