Cosa vogliono fare questi artisti?

 
Hieronymus Bosch 1

La semiosi confusa delle avanguardie e il simbolismo primitivo.

La semiotica è la scienza dei segni, cioè delle parole. Una sorta di semiotica, prima che si concretizzasse nei codici linguistici, era la funzione di alcune figure retoriche come la metonimia (la qualità per la cosa), la sineddoche (la parte per il tutto) e la metafora (una cosa per un’altra cosa). In maniera più diegetica, cioè impiegate in forma narrativa, ci sono poi l’allegoria, l’emblema e il simbolo, che istituiscono un rapporto di significazione più o meno preciso tra veicolo (ciò che si dice o si vede) e tenore (ciò a cui ciò che si vede rimanda).

L’allegoria è più precisa (nella favola il lupo e l’agnello sono l’aggressività prepotente e la debolezza innocente), l’emblema e il simbolo funzionano con significati meno precisi, più soggettivi e sfumati. Tutte queste figure retoriche funzionano comunque tramite uno spostamento degli elementi in rapporto tra loro per significare.

Naturalmente si può sconfinare tra questi limiti: per esempio la lettera scarlatta del romanzo omonimo è inizialmente concepita come un segnale emblematico (una lettera A di colore rosso cucita sul vestito nero della peccatrice) che significa esattamente adultera. Poi diventa un simbolo, cioè assorbe tutti i significati che il comportamento di Hester accumula per coloro che sono testimoni della sua vita e per il lettore. Questi significati non sono precisi, ma implicano certamente sofferenza, altruismo, forza morale, femminismo.

La tendenza dominante nella concezione del modo di significare delle avanguardie del ‘900, rifiuta la precisione del segno e dell’allegoria e predilige la flessibilità dell’emblema e del simbolo.

Di questa tendenza, denominata prima ambiguità e poi polisemia, si è appropriato infine il decostruzionismo (tra post-strutturalismo e postmodernismo), col concetto di “gioco”, inteso come la possibilità, anche ludica appunto, di muoversi entro uno spazio, una zona franca di più significati possibili, peraltro e comunque indeterminati.

Per le avanguardie questo è lo spazio da lasciare al soggettivismo, all’emotività, da scatenare con l’automatismo e da cercare nell’animismo dei primitivi. Questo ritorno alle origini è spesso solo un ritorno ad una concezione premoderna, molto simile alla “chain of being”, ovvero alla catena dell’essere del mondo medievale, ancora vigente per esempio nelle opere di Shakespeare, dove l’essere, cioè tutto l’esistente, è costituito e organizzato in una catena dal basso verso l’alto, che parte dalle cose naturali come le pietre, e si eleva gradatamente alla natura vegetale (con anima vegetale), poi animale (con anima animale, e perciò si chiamano così), poi femminile (con anima sensibile, ma non del tutto razionale), poi maschile (con anima razionale), poi angelica (che apprende Dio senza bisogno di pensare) e infine a Dio.

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Ma per le avanguardie del ‘900, il punto è: cosa vogliono fare o credono di fare questi artisti? I loro proclami come interpretazione delle loro opere sono credibili? O non lo sono perché nascono dall’irrazionale a cui aspirano?

La funzione dell’arte come settore della comunicazione con un intento intrinseco cioè per comunicare se stessa (autoriflessiva), a sua volta viene utilizzata in modo estrinseco come elemento di un capitale culturale, da impiegare per qualche scopo.

Qui si dibatte sul perché cercare sé altrove, nel primitivo, e per ottenere cosa. Per esempio per ottenere una forza spirituale, ma per fare cosa? E dentro o fuori dall’arte? I dipinti preistorici si suppone servissero alla caccia, come l’arte primitiva serve a ottenere protezione degli spiriti nei compiti sociali ed economici che si devono svolgere nella vita pratica della tribù.

La vita pratica dei primitivi è immersa nel sovrannaturale, che per essi è come il naturale. Gli artisti occidentali invece sembra che vogliano regredire per recuperare ciò che nella modernità non hanno più. Le loro opere, come arma di offesa alla borghesia, non funzionano e non si capisce se loro lo capiscano o vogliano solo vendere come Dalì.

Forse in realtà l’artista esiste e svolge il suo compito senza sapere esattamente perché, oppure credendo di saperlo, ma in una deriva che lo porta altrove. Il punto è che gli artisti parlano con la loro arte, e qui si trovano in un frangente in cui parlare con l’arte non produce comunicazione, o meglio i loro proclami anti-istituzionali sono comprensibili, ma le intenzioni sono o non sono realizzate? E si possono leggere nelle opere?

L’arte è piacere e questo si scontra con altri dichiarati intenti che col piacere possono non connettersi. Ci sono pittori nella storia come Hieronymus Bosch che creano opere minacciose, lo stesso fa Munch. E in questo caso il piacere non è un diletto superficiale, ma è il piacere di capire contemplando simboli, come Les Demoiselles d’Avignon; emblemi, come Il grido di Munch; e allegorie come le opere di Bosch. Gli affreschi nelle chiese erano considerati “la Bibbia dei poveri” che non sapevano leggere. Rappresentavano e illustravano le parabole educative della religione.

Per Edward Munch l’arte era “cristallizzazione delle emozioni”. Il grido, sembra voler significare, tra le altre cose, l’urlo di dolore alla percezione dell’isolamento e dell’alienazione umana. Ma isolamento rispetto a cosa? Rispetto alla natura, e per Munch la disperazione era reciproca: dell’uomo perché ormai separato da un contesto sociale e naturale accogliente, e della natura stessa che diventa estranea alla sua funzione di mondo umano. (E qui è ancora o di nuovo vigente quel rapporto denunciato a metà dell’Ottocento da John Ruskin come “pathetic phallacy” cioè l’idea, per Ruskin erronea, di voler vedere la natura come riflesso dei sentimenti umani.)

A rigor di termini perciò l’immagine di Munch non è ancora un simbolo, ma un emblema: si capisce perfettamente cosa rappresenta e quindi significa, ma diversamente dall’allegoria, che rappresenta un significato elaborato altrove e già prima (per esempio i tormenti dell’inferno per i dannati di Bosch), svela una condizione disperata in fieri, immanente e importante proprio per questo.

L’apprendimento del sapere ha un fine pratico, e implica anche il piacere di dominare gli strumenti appresi per poi agire. L’arte come comunicazione di un sapere comporta tale piacere. Già Aristotele dice che “quelle cose medesime alle quali in natura non possiamo guardare senza disgusto… nelle loro riproduzioni artistiche… ci recano diletto…” Ma quando l’arte, tramite la teorizzazione estetica moderna, diventa autonoma e prevalentemente autoriflessiva, celebra un sapere astratto e assoluto in sé, senza un fine immediato se non il piacere di fruire del percorso paradigmatico: vedere, capire, sapere, orientarsi nel mondo.

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