Leonardo Terzo, Essere e divenire, 2015
Prendendo spunto dalla dicotomia tra particolare e universale (che, per esempio, riferito a Nietzsche, Luc Ferry, in Homo Aestheticus, 1990, pp. 238-243, definisce “ultra-individualismo” e “iperclassicismo”) si ripropone l’ascrizione della creatività artistica all’individuo artista o alle condizioni sociali e storiche in cui l’artista individuo è radicato e da cui è condizionato. Le due cose si possono intendere in contrapposizione o, io direi, necessariamente innestate nel divenire del contesto. Il contesto storico e sociale esistente forma l’individuo, che poi inventa il nuovo in relazione alla sua particolarità; e la nuova invenzione si aggiunge al mondo pre-esistente, promuovendone il divenire in un nuovo contesto da condividere per tutti.
Ogni invenzione modifica il mondo per tutti: il nuovo deriva dall’esistente a causa del mutare di ogni condizione, per l’intrinseca molteplicità in fieri del reale. Ogni individuo è il prodotto della Storia e la Storia cambia per l’azione di ogni individuo. Ciò vale per tutto e quindi anche per la creazione artistica. Solo che la creazione artistica ha per fine, in termini formali, un messaggio epistemologico che ha il compito di evidenziare proprio questo. Tante altre cose cambiano perpetuamente nella storia, ma l’arte è una finestra, se non “la finestra”, aperta su questa fenomenologia.
Tuttavia nel divenire, come in effetti nel tempo, le soste, cioè gli stati dell’essere sono convenzioni, necessarie ad orientarsi. Tutto: il tempo, le personalità, le età, sono in continuo divenire e modificarsi, ma per il nostro orientamento fissiamo categorie, significati, date, ore, secoli, nomi e caratteri umani, tutti punti di riferimento per intenderci e operare come se ci fossero cose e momenti durevoli. La storia dell’arte è perciò fatta di costruzioni formali, dette opere, che fissano degli stati in termini di rappresentazioni e presentazioni che rimangono a rammentarci i momenti dell’evoluzione della realtà, percepita e riformulata dagli autori.
Quello che io ho chiamato “finestra”, per Heidegger (“L’origine dell’opera d’arte”, in Holzwege, 1935-36, trad. it. Milano, 2002), sarebbe “la messa in opera della verità”. Scostandomi da ciò che Heidegger intende per “disvelamento” (perché in quel senso tutto è verità, soprattutto la menzogna), io intenderei l’essenza dell’opera d’arte come la funzione di fermare, nella sua invenzione, il mutamento, mostrandoci e dicendoci persistentemente uno stato del mondo che nella realtà non c’è più.
Questa funzione è stata usurpata, almeno secondo i canoni della “rappresentazione”, dalla fotografia, il che ha aperto gli occhi sulla necessità di rinnovare le poetiche artistiche, e di spostare la funzione testimoniale dalla documentazione (che la fotografia svolge meglio) alla presentabile molteplicità di ciò che viene ritenuto invece “indicibile” e/o “impresentabile” (Lyotard, Garroni).