Leonardo Terzo, After Wahrol, 2004.
Come c’è un rapporto estrinseco dell’arte con la Storia, cioè le avanguardie come espressione e conseguenza della rivolta socio-politica, in cui il linguaggio è il mezzo, ma in posizione strumentale, per una finalità che lo trascende, così c’è un rapporto storico intrinseco, dell’arte con le sue convenzioni comunicative nel tempo.
Il suo senso consiste allora nella sperimentazione autoriflessiva del modo di fare arte. È pur sempre un’esplorazione dell’artista del contesto culturale specifico. Con tutti i contatti e i rapporti col presente, l’artista diventa gradualmente un operatore della comunicazione, orientato all’estetica dei mezzi, dal cavalletto all’aperto al dripping e al gesto, alle bombolette, alle installazioni, al computer.
La funzione dell’avanguardia come rivolta si esaurisce quando è chiaro che il mercato fagocita e digerisce ogni presunta trasgressione, da quelle più semplicemente ironiche e intellettuali come il surrealismo, a quelle più complici e collaborative come il cubismo, o più stereotipate e autopunitive, come la pop art, persino a quelle al loro tempo autenticamente e severamente nichiliste, come il dadaismo.
Le opere contemporanee non sono più destinate, se mai lo sono state, ad un pubblico generalizzato, ma alle élite all’ingrosso dei curatori museali e delle case d’asta, alle dipendenze delle istituzioni, pubbliche e private, vocate alla distribuzione profittevole al dettaglio nelle mostre e negli eventi di moda.
Questa situazione va collocata nella storia più ampia della funzione degli intellettuali. Dal Settecento fino alla metà dell’Ottocento essi sono organici all’Illuminismo e alla lotta della borghesia, e critici contro i residui della cultura aristocratica. Convenzionalmente a partire dal 1850, si ritiene che la borghesia, ormai solidamente al potere, non gradisca più la critica degli intellettuali; è soddisfatta del già noto e li isola da ogni funzione concretamente politica e innovativa.
Le avanguardie sono il risultato di questo isolamento: la loro attività diventa invenzione di vari tipi di irrequietezza prima protestataria, che non riesce a trovare riscontro nel presente produttivo e ha successo solo a certe condizioni: col fascino del sensibile (i girasoli di Van Gogh), dell’esotico (Gauguin), dell’onirico (Munch), e poi come suggestione erotica: superficiale (Klimt) o intensa e perturbante (Schiele), sullo sfondo costante dell’invenzione ludica multiforme (Picasso, Dalì, Mirò).
Esaurita la capacità di invenzione formale si ricorre all’uscita dalla cornice, alla differenziazione dei mezzi, e all’evento in luogo della visione. La ricerca più autentica e sconcertante è generalmente riconosciuta a posteriori, quella più disimpegnata e connivente col quieto vivere borghese è presto celebrata e ricompensata attraverso tutti suoi periodi ricreativi (blu, rosa, cubismo analitico, sintetico ecc.).