Daily Aesthetics, 4. 8. 2016: Heidegger, “L’origine dell’opera d’arte”, 1935-36. Prima puntata.

z foto allestLeonardo Terzo, Stendimi, fotografia allestita, 2015

Heidegger, “L’origine dell’opera d’arte”, 1935-36. Prima puntata.

Heidegger dice: “L’artista è l’origine dell’opera”.

Ma l’opera non è l’origine dell’artista. Come egli invece dice subito dopo. Caso mai l’opera è solo la prova che l’artista è tale. Dall’opera non ha origine niente, in senso proprio, perché l’opera, dopo essere stata originata, sussiste, ma non produce niente, perché è una cosa inerte in sé. Solo gli uomini possono dare origine a qualche altra cosa, prendendo coscienza dell’opera, cioè dell’effetto dell’azione dell’artista. Tanto meno l’arte origina entrambi, come subito dopo aggiunge, a meno di usare tutti questi termini in senso metaforico intenzionalmente ingannevole.

L’arte è un senso che l’uomo che agisce creando attribuisce all’effetto che la sua creazione ha sulla sua sensibilità e il suo intelletto. Infatti poi Heidegger dice che l’arte non è nulla di reale, se non “…una rappresentazione collettiva, il designato con la parola <<arte>> potrebbe essere soltanto sul fondamento della realtà di opere e artisti.”

Fin qui siamo d’accordo, e viene subito da rinfacciargli che è così anche con la parola <<essere>>, che è appunto una rappresentazione collettiva, senza consistenza, perché non esiste l’essere, bensì solo gli enti. E poi si può inventare la rappresentazione collettiva dell’essere, che non esiste, se non appunto come rappresentazione collettiva.

Ma invece Heidegger prosegue: “Oppure è il contrario? Si dà l’opera e si dà l’artista solo in quanto l’arte è, e invero come loro origine?” (Pag. 6) Quindi si capisce che preferirebbe questa seconda soluzione: prima è l’arte e di conseguenza ci sono anche l’opera e l’artista. Bontà sua poi ammette: “L’intelletto abituale esige che questo circolo venga evitato, perché è una trasgressione della logica.”

Infatti. Poi però fa marcia indietro. Accetta il circolo, e dice che non se ne può uscire: sappiamo cos’è l’opera d’arte, perché sappiamo cosa è l’arte.

Il fatto è invece che il procedimento è stato storicamente inverso: l’opera d’arte che inaugura l’arte è diventata tale solo quando le abbiamo attribuito in concreto, a partire da un’occasione iniziale e specifica, certi valori che successivamente abbiamo cominciato ad attribuire anche ad altre cose successive in casi successivi.

Quindi l’arte in generale, come senso condiviso di ogni opera d’arte, ha cominciato ad esistere per una più o meno precisa e determinata decisione storica che ha inventato e individuato, in un determinato costrutto, quel senso e quel valore. Che peraltro subisce evoluzioni perpetue, dalle pitture rupestri alle installazioni e alle performance.

Poi Heidegger scopre la cosalità dell’opera d’arte, quello che noi chiamiamo supporto materiale o significante. La cosalità che egli vorrebbe separare dal significato che egli chiama simbolico, proprio nell’opera d’arte è invece inseparabile. Caso mai vale forse per tutte le altre cose, che però sono anch’esse sempre qualcosa oltre la cosalità. Per esempio un martello è una cosa, ma con la particolarità di essere un martello, cioè una cosa che è e serve ad un compito particolare, diverso dalla macchina da cucire. Quindi la cosalità è comune, ma le cose sono distinte da essa e oltre essa.

Il termine cosa viene comunque applicato a tutto ciò che si è concepito e pensato, anche se non esiste, come Dio, o le cose ultime come la morte (che è un’azione), o qualsiasi cosa concepita o inventata. Non sarebbe una cosa la “nullità”. Allora bisognerebbe distinguere tra i concetti: quelli ammessi alla cosalità come l’infinito? E quelli non ammessi come il nulla?

Anche le mere cose non esistono, perché non ci sono cose che non sono qualcosa, cioè che non hanno una particolarità, altrimenti non sarebbero individuabili nemmeno come cose. L’uso più comune della distinzione è tra gli oggetti e gli esseri viventi, dai microbi agli extraterrestri. Comunque la cosa è tutto ciò che viene percepito, individuato e interpretato in qualche modo come esistente con dei limiti e un’estensione.

Altrettanto ovvio che il modo di essere delle cose è determinato dal modo di apprenderle e quindi dagli apparati percettivi, per esempio quelli dell’uomo diversi da quelli di altre specie. L’estensione e i limiti indicano una unità, un insieme di elementi uniformi o molteplici che comunque si rapportano anche in una forma. La natura della cosa è percepita, individuata e considerata reale fino a prova contraria. La cosalità è in sostanza la concezione iniziale ed elementare di ogni conoscenza, che viene però appresa e assimilata in un deposito di coscienza e conoscenza.

Chiamare qualcosa semplicemente (mera) cosa significa privarla della nozione di ciò che è: un pezzo di natura, o strumento, oppure opera d’arte. Significa però dire comunque che c’è e che non è un essere vivente. Quindi una parte di informazione su di essa esiste comunque. Oltre al fatto che semioticamente può essere un’idea o un concetto, non necessariamente materiale. Per esempio: “l’onestà è una bella cosa”.

Ridotta ai minimi termini, è qualsiasi cosa non vivente. Insomma si può concepire la cosa nella sua mera cosalità, senza necessariamente andar oltre con altre specificazioni sulla sua strumentalità o operalità, cioè il suo essere opera d’arte. Oppure si afferma la sua esistenza, senza dire la sua essenza, da scegliere fra tutte le possibilità di che cosa essere. La cosalità della cosa è quindi la sola coscienza della sua esistenza, senza dire la sua essenza.

Inoltre la cosità (o cosalità?) e gli altri modi di essere strumentalità o operalità, sono necessari solo se c’è un interesse soggettivo ad accertarsene. La cosa in sé non vuole essere niente, neanche cosa. Sta a noi decidere cosa vogliamo sapere. Senza questo interesse non esiste nessuna cosa. Oblomov non ha nessun interesse per nessuna cosa, e dunque per lui non deve esistere nessuna cosità, strumentalità o operalità, che in ogni caso sarebbe una rottura di scatole.

Così pure la strumentalità dello strumento è un raggiungimento per tentativi, seguenti ad intuizioni e speculazioni intellettuali e sperimentazioni tecniche e pratiche. Il mondo umano è una costruzione per intuizioni e realizzazioni sia di strumenti che di opere d’arte, né si può dire forse se le due cose si siano o no concepite e realizzate in una qualche successione o contemporaneamente. Tutto l’esempio che Heidegger fa con il quadro delle scarpe di Van Gogh è pura sciocchezza, che vuole far credere in fieri ciò che si è fatto in secoli o millenni. (Continua)