Leonardo Terzo, Proscenio, 2015
Il nucleo da cui tutto si promuove nel creativo e fantasioso ragionamento di Heidegger è l’essere inaugurale dell’essente. Abbiamo già detto che l’essere dell’essente è “una rappresentazione collettiva” cioè non esiste concretamente, ma un concetto utile per parlare delle cose come un insieme. Ma soprattutto, collettivo o singolare, è comunque ipostatizzato senza una ragione che non sia arbitraria.
Considerando vari passaggi, possiamo vedere di tradurre il gergo specifico in linguaggio più comprensibile:
a) l’opera inaugura, cioè inizia qualcosa di nuovo;
b) requiesce in sé, cioè è autonoma;
c) mentre ulteriori eventuali impieghi contrastano ovvero “ob-stano” al suo “puro-stare-entro-sé dell’opera” (Pag. 33)
Tuttavia che fa l’opera? L’opera fa (meglio: compagina) mondo, cioè mondeggia.
Forse vuol dire che, una volta isolata l’opera, cioè “sradicata da tutte le sue relazioni con ciò che è diverso da essa”, essa può “requiescere su se stessa puramente per sé”. (Ibid.) Perché a quel punto finalmente essa è un mondo autonomo. Vietato chiedersi a che serve, o perché è stato fatto, e minuzie del genere, perché nessuno si sogna di chiedere a che serve un mondo. Ma infatti nessuno se lo è mai chiesto. Neppure gli autori della Bibbia.
Ma una risposta ci sarebbe: l’opera mondo mondeggia perché accada la verità dell’opera (che dà il titolo al capitolo). Con qualche scappatella però. Per esempio per celebrare e glorificare. Ma non è chiaro celebrare cosa? Non importa: pare che serva a dare comunque un compito all’opera, “un’erezione votivo-glorificante” (p. 38), che in tal modo onora la sua operità.
Ma se l’essere non ha radicamenti, ed è solo in sé, come facciamo a sapere o capire che siamo in un mondo? E come fanno a caderci “le decisioni essenziate della nostra storia”? E se: “Nel mondeggiare è raccolta quella spaziosità in base a cui si dona o si rifiuta il custodente favore degli dei”, da dove spuntano questi dei?
E non basta. Spunta anche dell’altro: “Ciò in cui l’opera si ripone… lo abbiamo chiamato la terra.” E non solo: “L’opera lascia che la terra sia una terra.” E perché no? Ma: “La terra ribalta in disastro ogni pervasività puramente calcolatrice.” (Pag. 42) Ne eravamo sicuri.
Terra e mondo servono solo a: “…essere tratti essenziati nell’operità dell’opera.” (Pag. 43) E “In che la verità accade nell’operità dell’opera?” (Pag. 45) “Sennonché adesso noi non cerchiamo la verità dell’essenza, ma l’essenza della verità. Risulta così uno strano groviglio.” (Pag.46)
Lo subodoravamo. (Continua)