Daily Aesthetics, 14. 8. 2016 Heidegger, “L’origine dell’opera d’arte”, 1935-36. Quinta puntata.

DSCN0286Leonardo Terzo, L’aperità dell’opera d’arte, 2016

L’instaurazione della verità nell’opera d’arte “…è l’esproduzione di un essente che prima non era ancora…” (p. 60). Questo sembra non richiedere altro che l’esproduzione stessa, senza particolari esigenze dell’opera, se non ciò che Heidegger chiama l’aperità. Solo che non dice come si fa a capire quando l’aperità c’è e come.

Ipotizzo che sia, dopo tutto, proprio la situazione dell’estetica attuale: cioè basta che qualcuno, meglio una comunità interpretativa, ma al limite anche ogni singolo fruitore, ritenga che questa aperità esista, perché l’opera gli piace, ed ecco che l’opera d’arte esiste, con tutto il suo carico di verità. Infatti: “La verità si instaura nell’essente precisamente in modo che l’essente stesso si immetta nell’aperto della verità e lo guarnisca” (p.62).

Autore e fruitore non sono menzionati, sostituiti dal “mondo” e dalla “terra”, che contrattano fra loro e prima o poi si accordano. Infatti “Che la createzza esprovenga dall’opera non significa che nell’opera deve essere evidente il suo essere fatta da un grande artista” (p. 64). Quello che conta è “questo: che tale opera è, anziché non esserci” (ibid.).

Alla fine però, magari di sfuggita, si ammette che il requisito sia che l’esserci sia “l’inabituale” (p. 65). Insomma ciò che tutti banalmente chiamiamo l’originalità: “l’unicità del fatto che essa è”; e ancora: “La createzza si è svelata come l’essere impostata-e-fissata della contesa, mediante il tratto dello spacco, nella postura della figura”. E tanto più “essenzialmente urtato e ribaltato è ciò che finallora pareva normale” (ibid.). Chiaro?

E, dopo l’originalità, recupera anche i fruitori in grado di apprezzare, chiamandoli “verecondenti”, perché “non significa affatto che l’opera sia opera anche senza verecondenti”, magari resta solo in attesa di avere dei verecondenti.

Tutto ciò si rifà però ad un raggiungimento che, tramite l’apertura ad un essente diventa “l’estatico lasciarsi immettere dell’uomo esistente entro l’inascosità dell’Essere” (p.67). Questo dunque è il punto a cui tutta la costruzione mirava: a far accedere chi ha a che fare con l’opera, il quale è un mero ente, a contatto con l’Essere. L’arte allora, o meglio la verità dell’arte, consiste nel permettere il passaggio dall’ente all’Essere.

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