Leonardo Terzo, L’ex-produzione dell’inascosità dell’essente?, 2016
Dunque la verità dell’arte finisce per essere “l’estatico lasciarsi immettere dell’uomo esistente entro l’inascosità dell’Essere” (p.67).
Come già detto, perché mai la fruizione dell’arte sia un giungere a rendersi conto di qualcosa detto “apertura” non è spiegato, né si capisce perché la fruizione venga descritta come una posizione, un luogo, e un muoversi tra dentro e fuori: essere è descritto come uno stare, ma all’occorrenza è anche un sapere e un volere, perché quanto meno è spiegato tanto più si dà per inteso che sia una varietà di esperienze che si muove verso una totalità. Ma con un esperire che si realizza in un atteggiamento di passività.
Lo scopo credo sia di porre l’accento sull’opera e non su chi la crea o la fruisce, raffigurato come un passivo farsi portare dentro e fuori. Ma proprio questo è poco sostenibile, e infatti viene qua e là negato: “Tuttavia nell’exsistenza l’uomo non va da un dentro verso fuori: l’essenza dell’ex-sistenza è piuttosto l’estante instare entro l’essenziata estanzialità del luco dell’essente.” (Ibid.) Giuro, dice proprio così.
Il verecondimento, che per noi sarebbe la fruizione, “accade a diversi gradi di sapere, ogni volta con diversa portata e gittata, stabilità e chiarità. Quando delle opere vengono offerte al mero godimento artistico, non dimostrano ancora di stare come opere verecondite.” (Ibid.) Cioè l’autore fa un’opera, ma finché l’opera non trova ammiratori ed eventuali acquirenti non è veramente realizzata.
La vera fruizione sembra un cane che si morde ripetutamente la coda: “La realtà più propria dell’opera viene invece al suo portamento solo là dove l’opera viene verecondita nella verità che accade attraverso l’opera stessa.” (Ibid.) E ancora: “Se l’arte è l’origine dell’opera, allora ciò significa che essa lascia scaturire nella loro essenza quelli che co-appartengono essenzialmente all’opera, creanti e verecondenti” (p.71). Così la verità dell’opera si riduce all’essere apprezzata da qualcuno, però paludato come verecondente.
Continuamente si ripete anche che la creazione è “ex-produzione dell’inascosità dell’essente.” E infine: “Ma allora la verità sorge dal Nulla? Di fatto sì, se per <<Nulla>> s’intende il mero <<Non>> dell’essente, e se quindi l’essente è rappresentato come quell’abitualmente esistente…” (pp. 71-72).
Le stesse cacofonie vengono ripetute per la poesia, cioè l’arte fatta di parole: “Questo nominare nomina l’essente promuovendolo al suo essere in base al suo essere” (p. 74). Con contorno dei soliti: mondo, terra, dei. “Ogni loquela è di volta in volta l’accadimento di quel dire in cui storicamente, per un popolo, sorge il suo mondo e la terra viene conservata e inverata come l’occlusa” (p. 74).
L’intento di questo saggio non è convincere l’interlocutore con delle spiegazioni, ma di stordirlo attraverso la martellante ripetizione di una terminologia ermetica. Anche un po’ comica. Forse gli è stato fatto notare. Per cui ne derivano un paio di aggiunte in appendice. Ma il risultato non è molto diverso.
Quindi come designare l’essente di questa impresa? Il nascondimento della banalità? Il fatto è che molti verecondenti abboccano.