Leonardo Terzo, “Heidegger e l’origine dell’opera d’arte”

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Il testo citato è il primo saggio di Holzwege. Sentieri erranti nella selva. (pp. 5-90) a cura di Vincenzo Cicero, Milano, Bompiani, 2002.

Heidegger dice: “L’artista è l’origine dell’opera”.

Ma l’opera non è l’origine dell’artista. Come egli invece dice subito dopo. Caso mai l’opera è solo la prova che l’artista è tale. Dall’opera non ha origine niente, in senso proprio, perché l’opera, dopo essere stata originata, sussiste, ma non produce niente, perché è una cosa inerte in sé. Solo gli uomini possono dare origine a qualche altra cosa, prendendo coscienza dell’opera, cioè dell’effetto dell’azione dell’artista. Tanto meno l’arte origina entrambi, come subito dopo aggiunge, a meno di usare tutti questi termini in senso metaforico intenzionalmente ingannevole.

L’arte è un senso che l’uomo che agisce creando attribuisce all’effetto che la sua creazione ha sulla sua sensibilità e il suo intelletto. Infatti poi Heidegger dice che l’arte non è nulla di reale, se non “…una rappresentazione collettiva, il designato con la parola <<arte>> potrebbe essere soltanto sul fondamento della realtà di opere e artisti.”

Fin qui siamo d’accordo, e viene subito da rinfacciargli che è così anche con la parola <<essere>>, che è appunto una rappresentazione collettiva, senza consistenza, perché non esiste l’essere, bensì solo gli enti. E poi si può inventare la rappresentazione collettiva dell’essere, che non esiste, se non appunto come rappresentazione collettiva.

Ma invece Heidegger prosegue: “Oppure è il contrario? Si dà l’opera e si dà l’artista solo in quanto l’arte è, e invero come loro origine?” (Pag. 6) Quindi si capisce che preferirebbe questa seconda soluzione: prima è l’arte e di conseguenza ci sono anche l’opera e l’artista. Bontà sua poi ammette: “L’intelletto abituale esige che questo circolo venga evitato, perché è una trasgressione della logica.”

Infatti. Poi però fa marcia indietro. Accetta il circolo, e dice che non se ne può uscire: sappiamo cos’è l’opera d’arte, perché sappiamo cosa è l’arte.

Il fatto è invece che il procedimento è stato storicamente inverso: l’opera d’arte che inaugura l’arte è diventata tale solo quando le abbiamo attribuito in concreto, a partire da un’occasione iniziale e specifica, certi valori che successivamente abbiamo cominciato ad attribuire anche ad altre cose successive in casi successivi.

Quindi l’arte in generale, come senso condiviso di ogni opera d’arte, ha cominciato ad esistere per una più o meno precisa e determinata decisione storica che ha inventato e individuato, in un determinato costrutto, quel senso e quel valore. Che peraltro subisce evoluzioni perpetue, dalle pitture rupestri alle installazioni e alle performance.

Poi Heidegger scopre la cosalità dell’opera d’arte, quello che noi chiamiamo supporto materiale o significante. La cosalità che egli vorrebbe separare dal significato che egli chiama simbolico, proprio nell’opera d’arte è invece inseparabile. Caso mai vale forse per tutte le altre cose, che però sono anch’esse sempre qualcosa oltre la cosalità. Per esempio un martello è una cosa, ma con la particolarità di essere un martello, cioè una cosa che è e serve ad un compito particolare, diverso dalla macchina da cucire. Quindi la cosalità è comune, ma le cose sono distinte da essa e oltre essa.

Il termine cosa viene comunque applicato a tutto ciò che si è concepito e pensato, anche se non esiste, come Dio, o le cose ultime come la morte (che è un’azione), o qualsiasi cosa concepita o inventata. Non sarebbe una cosa la “nullità”. Allora bisognerebbe distinguere tra i concetti: quelli ammessi alla cosalità come l’infinito? E quelli non ammessi come il nulla?

Anche le mere cose non esistono, perché non ci sono cose che non sono qualcosa, cioè che non hanno una particolarità, altrimenti non sarebbero individuabili nemmeno come cose. L’uso più comune della distinzione è tra gli oggetti e gli esseri viventi, dai microbi agli extraterrestri. Comunque la cosa è tutto ciò che viene percepito, individuato e interpretato in qualche modo come esistente con dei limiti e un’estensione.

Altrettanto ovvio che il modo di essere delle cose è determinato dal modo di apprenderle e quindi dagli apparati percettivi, per esempio quelli dell’uomo diversi da quelli di altre specie. L’estensione e i limiti indicano una unità, un insieme di elementi uniformi o molteplici che comunque si rapportano anche in una forma. La natura della cosa è percepita, individuata e considerata reale fino a prova contraria. La cosalità è in sostanza la concezione iniziale ed elementare di ogni conoscenza, che viene però appresa e assimilata in un deposito di coscienza e conoscenza.

Chiamare qualcosa semplicemente (mera) cosa significa privarla della nozione di ciò che è: un pezzo di natura, o strumento, oppure opera d’arte. Significa però dire comunque che c’è e che non è un essere vivente. Quindi una parte di informazione su di essa esiste comunque. Oltre al fatto che semioticamente può essere un’idea o un concetto, non necessariamente materiale. Per esempio: “l’onestà è una bella cosa”.

Ridotta ai minimi termini, è qualsiasi cosa non vivente. Insomma si può concepire la cosa nella sua mera cosalità, senza necessariamente andar oltre con altre specificazioni sulla sua strumentalità o operalità, cioè il suo essere opera d’arte. Oppure si afferma la sua esistenza, senza dire la sua essenza, da scegliere fra tutte le possibilità di che cosa essere. La cosalità della cosa è quindi la sola coscienza della sua esistenza, senza dire la sua essenza.

Inoltre la cosalità (o cosità?) e gli altri modi di essere strumentalità o operalità, sono necessari solo se c’è un interesse soggettivo ad accertarsene. La cosa in sé non vuole essere niente, neanche cosa. Sta a noi decidere cosa vogliamo sapere. Senza questo interesse non esiste nessuna cosa. Oblomov non ha nessun interesse per nessuna cosa, e dunque per lui non deve esistere nessuna cosità, strumentalità o operalità, che in ogni caso sarebbe una rottura di scatole.

Così pure la strumentalità dello strumento è un raggiungimento per tentativi, seguenti ad intuizioni e speculazioni intellettuali e sperimentazioni tecniche e pratiche. Il mondo umano è una costruzione per intuizioni e realizzazioni sia di strumenti che di opere d’arte, né si può dire forse se le due cose si siano o no concepite e realizzate in una qualche successione o contemporaneamente. Tutto l’esempio che Heidegger fa con il quadro delle scarpe di Van Gogh è pura sciocchezza, che vuole far credere in fieri ciò che si è fatto in secoli o millenni. (Continua)

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Leonardo Terzo, Stendimi, fotografia allestita, 2015

2.

Secondo Heidegger, per qualche misteriosa o mistica effettualità, le scarpe dipinte da Van Gogh realizzerebbero il “disvelamento” dell’opera d’arte come verità. Ma anche la verità delle scarpe? O no? Questo disvelamento sarebbe l’essenzialità (o essenzietà), non si capisce bene se delle scarpe vere, in un senso essenziante (universale?), o delle scarpe come raffigurazione, che eleva le scarpe come strumento al dipinto delle scarpe come opera-verità, perché presenti, cioè essenziate, in un’opera d’arte.

Sembra però che il passaggio dalle scarpe vere a quelle raffigurate sia un passaggio dalla sottostruttura cosale a qualcos’altro. La sottostruttura cosale consiste nel riconoscere le scarpe raffigurate come immagini delle scarpe vere, cioè oggetto e strumento da mettere ai piedi. Sembra peraltro ovvio che le scarpe dipinte nel quadro non si possano calzare nella realtà, ed è su questo che sembra basarsi l’elevazione da strumento cosale a disvelamento della verità dell’opera d’arte. Ma in che consiste questa verità che non ci sarebbe invece nelle scarpe vere che Van Gogh ha copiato?

Ciò che Heidegger sostiene è che non si riconosce l’opera come raffigurazione delle scarpe come oggetto-strumento, ma si riconosce la cosa e lo strumento-scarpe dal fatto che sono raffigurate (essenzializzate) nel quadro di Van Gogh. È l’arte che determina il senso delle cose e non la rappresentazione delle cose che fa l’arte.

Ciò viene detto con queste parole: “È nell’opera che accade questa apertura inaugurale, cioè il disnascondere, cioè la verità dell’essente.” (Pag. 32) Vedere nell’opera d’arte una rappresentazione delle scarpe-strumento è un “preconcetto che ci ostruisce l’accesso all’operità dell’opera.” E ancora “Per poter aver adito all’opera occorrerebbe sradicarla da tutte le sue relazioni con ciò che è diverso da essa, in modo da lasciarla requiescere su se stessa unicamente per sé.” (Pag. 33)

L’opera starebbe solo in sé, senza legami con l’autore, né con le fruizioni pubbliche o private cui le costringono le istituzioni ufficiali, né i critici o gli storici dell’arte. Questo perché sarebbero “estrapolate dallo spazio del loro essenziare.” (Pag. 34)

L’opera avrebbe il suo “autosufficiente presenziare”, ma Heidegger non spiega perché, e che significherebbe. L’opera non è affatto autosufficiente; al contrario dipende dall’esecuzione dell’autore e dall’interpretazione del fruitore, come raffigurazione delle scarpe, sia come cose che come strumento. L’opera però è cosa e strumento anche come opera, cioè opera d’arte, che non è fatta per essere calzata, ma per essere osservata e riconosciuta come rappresentazione artistica dello strumento scarpe. La materia-forma del quadro non è quella delle scarpe reali, ma quella della tela, dei segni e dei colori.

In sostanza è il solito ripetuto capovolgimento: “Il quadro di Van Gogh è l’apertura inaugurale di ciò che lo strumento, il paio di scarpe contadine, è in verità.” (Pag. 28) Invece il quadro dice nella rappresentazione ciò che noi possiamo attribuirgli in quanto vediamo qualcosa che sappiamo già, cioè cosa sono le scarpe.

L’atteggiamento che Heidegger propone è invece pensare “l’essere dell’essente. È nell’opera che accade questa apertura inaugurale, cioè il disnascondere, cioè la verità dell’essente. L’arte è il mettersi-in-opera della verità. Che cos’è questo mettersi in opera?” (Pag. 32).

La risposta alla prossima puntata.

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3.

Il nucleo da cui tutto si promuove nel creativo e fantasioso ragionamento di Heidegger è l’essere inaugurale dell’essente. Abbiamo già detto che l’essere dell’essente è “una rappresentazione collettiva” cioè non esiste concretamente, ma un concetto utile per parlare delle cose come un insieme. Ma soprattutto, collettivo o singolare, è comunque ipostatizzato senza una ragione che non sia arbitraria.

Considerando vari passaggi, possiamo vedere di tradurre il gergo specifico in linguaggio più comprensibile:
a) l’opera inaugura, cioè inizia qualcosa di nuovo;
b) requiesce in sé, cioè è autonoma;
c) mentre ulteriori eventuali impieghi contrastano ovvero “ob-stano” al suo “puro-stare-entro-sé dell’opera” (Pag. 33)

Tuttavia che fa l’opera? L’opera fa (meglio: compagina) mondo, cioè mondeggia.

Forse vuol dire che, una volta isolata l’opera, cioè “sradicata da tutte le sue relazioni con ciò che è diverso da essa”, essa può “requiescere su se stessa puramente per sé”. (Ibid.) Perché a quel punto finalmente essa è un mondo autonomo. Vietato chiedersi a che serve, o perché è stato fatto, e minuzie del genere, perché nessuno si sogna di chiedere a che serve un mondo. Ma infatti nessuno se lo è mai chiesto. Neppure gli autori della Bibbia.

Ma una risposta ci sarebbe: l’opera mondo mondeggia perché accada la verità dell’opera (che dà il titolo al capitolo). Con qualche scappatella però. Per esempio per celebrare e glorificare. Ma non è chiaro celebrare cosa? Non importa: pare che serva a dare comunque un compito all’opera, “un’erezione votivo-glorificante” (p. 38), che in tal modo onora la sua operità.

Ma se l’essere non ha radicamenti, ed è solo in sé, come facciamo a sapere o capire che siamo in un mondo? E come fanno a caderci “le decisioni essenziate della nostra storia”? E se: “Nel mondeggiare è raccolta quella spaziosità in base a cui si dona o si rifiuta il custodente favore degli dei”, da dove spuntano questi dei?

E non basta. Spunta anche dell’altro: “Ciò in cui l’opera si ripone… lo abbiamo chiamato la terra.” E non solo: “L’opera lascia che la terra sia una terra.” E perché no? Ma: “La terra ribalta in disastro ogni pervasività puramente calcolatrice.” (Pag. 42) Ne eravamo sicuri.

Terra e mondo servono solo a: “…essere tratti essenziati nell’operità dell’opera.” (Pag. 43) E “In che la verità accade nell’operità dell’opera?” (Pag. 45) “Sennonché adesso noi non cerchiamo la verità dell’essenza, ma l’essenza della verità. Risulta così uno strano groviglio.” (Pag.46)

Lo subodoravamo. (Continua)

PId

Leonardo Terzo, “…chi rimembrar vi può senza sospiri…” After Leopardi, 2016.

4.

Dopo aver fondato tutto l’essente nello stare entro di sé, cioè nella sua autonomia, Heidegger si ricorda che l’opera, per essere, deve essere stata fatta, cioè è l’effetto di una “createzza”, che ha “effettuato” sia la cosalità che l’operalità (pp.53-54).

Nel cumulo di requisiti si ricorda così anche la compresenza-contesa-quiete tra mondo e terra. Resta tuttavia ancora misterioso come, per il fatto di essere opera, si dia per scontato che in essa sarebbe “all’opera l’accadimento della verità” (p. 55). Si scopre persino che: “L’operalità dell’opera consiste nel suo essere creata dall’artista. Può sembrare strano che questa determinazione così naturale e onnichiarificatrice dell’opera venga nominata solo ora. (Ibid.)” Infatti non ci voleva molto a pensarlo.

Del resto, sembra convenire a malincuore che “…dobbiamo acconsentire a occuparci dell’attività dell’artista. Il tentativo di determinare l’esser-opera dell’opera puramente in base all’opera stessa si rivela impraticabile.” (Ibid.) Meglio tardi che mai. Ma il punto che permane è che “…possiamo caratterizzare il creare come il lasciar-uscire in un esprodotto.” (Pag. 58)

Pare di capire a questo punto che la verità è semplicemente ciò che c’è, la somma della cosalità, della strumentalità e infine dell’operalità, per il fatto di essere e quindi mostrare, e perciò, con la non ascosità, far accadere la verità.

Ma si può obiettare che il requisito dell’essere ce l’hanno anche lo strumento e persino la mera cosa: purché ci siano non hanno bisogno di essere opera e avere la verità dell’arte. C’è anche, e dovrebbe bastar loro, la verità della cosa e la verità dello strumento.

Invece l’operare che inaugura e fa la verità dell’opera non è lo stesso operare che fa lo strumento o il prodotto artigianale. La differenza consisterebbe nella capacità di esporre ed essenziare l’inascoso. Tuttavia non si capisce perché e come l’apertura dell’opera aprirebbe la verità, mentre la produzione degli strumenti no. Insomma la verità dell’opera si instaura solo perché qualcuno (l’autore? Heidegger? Il passante ispirato?) si accorge che c’è?

No. Infatti: “…non è che la verità esista dapprima in sé e in qualche luogo astrale, per poi allogarsi aggiuntivamente in qualche altro luogo nell’ambito dell’essente. Ciò è impossibile già per il fatto che solo l’aperità dell’essente offre la possibilità di un qualche dove e di un sito occupato da presenzianti.” (Pag. 60,)

Purtroppo non si dice mai chi o che cosa avrebbe questa necessaria capacità di aprire l’inascoso e/o far accadere la verità. Ciò sebbene “Quest’ultimo è un accadere storico in molteplici modalità.” (Ibid.)

Seguono infatti alcune di queste modalità, tutte non determinanti, eccetto una: “Un’altra modalità in cui essenzia verità è l’atto che fonda uno Stato.” (Ibid.) E qui non si può fare a meno di cominciare a sentir puzza di atto di forza e, poiché siamo nel 1935-36, di nazismo.

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L’instaurazione della verità nell’opera d’arte “…è l’esproduzione di un essente che prima non era ancora…” (p. 60). Questo sembra non richiedere altro che l’esproduzione stessa, senza particolari esigenze dell’opera, se non ciò che Heidegger chiama l’aperità. Solo che non dice come si fa a capire quando l’aperità c’è e come.

Ipotizzo che sia, dopo tutto, proprio la situazione dell’estetica attuale: cioè basta che qualcuno, meglio una comunità interpretativa, ma al limite anche ogni singolo fruitore, ritenga che questa aperità esista, perché l’opera gli piace, ed ecco che l’opera d’arte esiste, con tutto il suo carico di verità. Infatti: “La verità si instaura nell’essente precisamente in modo che l’essente stesso si immetta nell’aperto della verità e lo guarnisca” (p.62).

Autore e fruitore non sono menzionati, sostituiti dal “mondo” e dalla “terra”, che contrattano fra loro e prima o poi si accordano. Infatti “Che la createzza esprovenga dall’opera non significa che nell’opera deve essere evidente il suo essere fatta da un grande artista” (p. 64). Quello che conta è “questo: che tale opera è, anziché non esserci” (ibid.).

Alla fine però, magari di sfuggita, si ammette che il requisito sia che l’esserci sia “l’inabituale” (p. 65). Insomma ciò che tutti banalmente chiamiamo l’originalità: “l’unicità del fatto che essa è”; e ancora: “La createzza si è svelata come l’essere impostata-e-fissata della contesa, mediante il tratto dello spacco, nella postura della figura”. E tanto più “essenzialmente urtato e ribaltato è ciò che finallora pareva normale” (ibid.). Chiaro?

E, dopo l’originalità, recupera anche i fruitori in grado di apprezzare, chiamandoli “verecondenti”, perché “non significa affatto che l’opera sia opera anche senza verecondenti”, magari resta solo in attesa di avere dei verecondenti.

Tutto ciò si rifà però ad un raggiungimento che, tramite l’apertura ad un essente diventa “l’estatico lasciarsi immettere dell’uomo esistente entro l’inascosità dell’Essere” (p.67). Questo dunque è il punto a cui tutta la costruzione mirava: a far accedere chi ha a che fare con l’opera, il quale è un mero ente, a contatto con l’Essere. L’arte allora, o meglio la verità dell’arte, consiste nel permettere il passaggio dall’ente all’Essere.

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6.

Dunque la verità dell’arte finisce per essere “l’estatico lasciarsi immettere dell’uomo esistente entro l’inascosità dell’Essere” (p.67).

Come già detto, perché mai la fruizione dell’arte sia un giungere a rendersi conto di qualcosa detto “apertura” non è spiegato, né si capisce perché la fruizione venga descritta come una posizione, un luogo, e un muoversi tra dentro e fuori: essere è descritto come uno stare, ma all’occorrenza è anche un sapere e un volere, perché quanto meno è spiegato tanto più si dà per inteso che sia una varietà di esperienze che si muove verso una totalità. Ma con un esperire che si realizza in un atteggiamento di passività.

Lo scopo credo sia di porre l’accento sull’opera e non su chi la crea o la fruisce, raffigurato come un passivo farsi portare dentro e fuori. Ma proprio questo è poco sostenibile, e infatti viene qua e là negato: “Tuttavia nell’exsistenza l’uomo non va da un dentro verso fuori: l’essenza dell’ex-sistenza è piuttosto l’estante instare entro l’essenziata estanzialità del luco dell’essente.” (Ibid.) Giuro, dice proprio così.

Il verecondimento, che per noi sarebbe la fruizione, “accade a diversi gradi di sapere, ogni volta con diversa portata e gittata, stabilità e chiarità. Quando delle opere vengono offerte al mero godimento artistico, non dimostrano ancora di stare come opere verecondite.” (Ibid.) Cioè l’autore fa un’opera, ma finché l’opera non trova ammiratori ed eventuali acquirenti non è veramente realizzata.

La vera fruizione sembra un cane che si morde ripetutamente la coda: “La realtà più propria dell’opera viene invece al suo portamento solo là dove l’opera viene verecondita nella verità che accade attraverso l’opera stessa.” (Ibid.) E ancora: “Se l’arte è l’origine dell’opera, allora ciò significa che essa lascia scaturire nella loro essenza quelli che co-appartengono essenzialmente all’opera, creanti e verecondenti” (p.71). Così la verità dell’opera si riduce all’essere apprezzata da qualcuno, però paludato come verecondente.

Continuamente si ripete anche che la creazione è “ex-produzione dell’inascosità dell’essente.” E infine: “Ma allora la verità sorge dal Nulla? Di fatto sì, se per <<Nulla>> s’intende il mero <<Non>> dell’essente, e se quindi l’essente è rappresentato come quell’abitualmente esistente…” (pp. 71-72).

Le stesse cacofonie vengono ripetute per la poesia, cioè l’arte fatta di parole: “Questo nominare nomina l’essente promuovendolo al suo essere in base al suo essere” (p. 74). Con contorno dei soliti: mondo, terra, dei. “Ogni loquela è di volta in volta l’accadimento di quel dire in cui storicamente, per un popolo, sorge il suo mondo e la terra viene conservata e inverata come l’occlusa” (p. 74).

L’intento di questo saggio non è convincere l’interlocutore con delle spiegazioni, ma di stordirlo attraverso la martellante ripetizione di una terminologia ermetica. Anche un po’ comica. Forse questo gli è stato fatto notare. Per cui ne derivano un paio di aggiunte in appendice. Ma il risultato non è molto diverso.

Quindi come designare l’essente di questa impresa? Il nascondimento della banalità? Il fatto è che molti verecondenti abboccano.