Postmodernità e Zeitgeist 13

Leonardo Terzo, Segno o son desto?, 2009

Segno, arte, realtà.

Il segno (la parola) ha un significante e un significato. Il significante è il suono, nel segno orale, o la grafia, nel segno scritto. Il significato è appunto ciò che quel suono o quella grafia vogliono dire e significare.

Il segno è usato nella comunicazione con funzione referenziale, cioè per dire qualcosa del mondo, ma anche con funzione estetica, cioè per comunicare qualcosa riferita a se stessa come forma in primo luogo, per attirare l’attenzione su come è fatta, anche se può rappresentare qualcosa che esiste effettivamente nella realtà o invece è solo frutto dell’immaginazione.

Esiste dunque una significazione referenziale che si riferisce alla realtà, che comunica informazioni sulla realtà, e una significazione estetica che si riferisce all’immaginario, più o meno simile o dissimile dalla rappresentazione della realtà.

L’arte del periodo modernista, 1850-1950, si è progressivamente allontanata dal realismo, fino all’informale, dove c’era solo una forma significante senza rappresentazione di qualcosa simile alla realtà.

Mentre l’arte modernista, come cubismo, surrealismo, futurismo, dadaismo e tante altre avanguardie, deformano la visione del mondo per suggerire modi nuovi e diversi di guardare la realtà, l’informale cerca invece di dire qualcosa attraverso una forma fine a se stessa, senza riferirsi a nulla di possibile. Essa comunque suscita reazioni emotive e anche concettuali più o meno verificabili in chi la osserva.

Una poetica del modernismo, ma forse già di quella cosa non del tutto definita concettualmente che è stata chiamata postmodernismo, è, tra le altre, la pop-art. Essa consiste approssimativamente nell’esteticizzazione, deformata o no, di aspetti o elementi della vita, che i fruitori conoscono già e con cui hanno a che fare quotidianamente. Proprio per questo è definita pop, cioè popolare, senza pretese elitarie o esclusivamente autoriflessive, che sarebbero proprie dell’arte, cioè della funzione estetica nella comunicazione.Josefine Raab                                 Leonardo Terzo, Beauty and Photograph, 2013

Il più famoso autore della pop-art è Andy Warhol, che, dopo avere creato opere che consistevano nella rappresentazione, anche realistica, di oggetti della vita quotidiana, o di riproduzioni di fotografie più o meno ritoccate o colorate di celebrità, come per esempio Marilyn Monroe, Mao Tze Tung e altri, ha esposto, come sue opere, oggetti non più rappresentati o fotografati, ma presi direttamente dal mondo reale, come scatole di pomodori e altre cose.

Ciò è diverso dall’uso dei ready-made, inventato e utilizzato da Duchamp per svelare quella che secondo lui era la truffa estetica di molta arte contemporanea. Esso consisteva nel dimostrare che la presunta arte non aveva nulla di estetico, ma era uguale alla produzione industriale di oggetti d’uso pratico come uno scolapiatti o un orinatoio.

La decisione di Warhol è stata invece da lui spiegata proprio come una consapevole assimilazione della creatività artistica al mondo già esistente, sostenendo che le cose prodotte e utilizzate nella vita reale di tutti avrebbero comunque già in sé quell’aura che le opere d’arte avrebbero per il solo fatto di essere oggetti cui è attribuita una finalità estetica.

La natura o funzione estetica non sarebbe perciò un fatto di elaborazione formale (che implica la riflessione organica di ogni elemento dell’opera d’arte su tutti gli altri), bensì un fatto di attribuzione intellettuale, che dipende dalla volontà dell’autore di considerarla tale. La considerazione di una qualità visibile come forma dell’opera viene degradata da Warhol ad effetto di mera percezione “retinica”, cioè visibile con la retina degli occhi, senza significato mentale.

L’intervento della volontà di erigere un oggetto comune a opera d’arte serviva a Duchamp a svelare l’inganno per cui le presunte opere d’arte non erano che oggetti comuni. Warhol al contrario usa lo stesso procedimento, con finalità opposte, cioè per erigere l’oggetto comune ad opera d’arte.

Il fatto è che questo procedimento propone qualcosa che non si sa se va apprezzata per la sua funzionalità pratica (come scatola di pomodori), o per la sua funzionalità estetica, che cioè eleva a organicità formale (come si richiede di solito all’arte) quella che è funzionalità pratica (per contenere i pomodori). Sarebbe insomma un ready made preso sul serio e non per irridere la decadenza dell’arte, come quello di Duchamp. Contenere i pomodori diventerebbe così una creatività, come se fosse innovativo qualcosa di cui prima non ci eravamo accorti e resi conto. Ma in realtà lo scopo della pop-art è di abolire la creatività per accontentarsi di qualsiasi funzione, ovvero: anything goes. Ovvero ancora l’esteticizzazione della quotidianità.Minimalismi e uscita

Leonardo Terzo, Exit, 2015

A differenza della pop-art, che è fatta di cose la cui utilizzazione è ovvia ed evidente, l’arte concettuale, costituita da esecuzioni e azioni performative (performances), o da assembramenti di cose o frammenti di cose, è una utilizzazione provvisoria di scenari o installazioni che si esauriscono o vengono poi comunque disinstallati, lasciando solo una traccia di esperienza vissuta, celebrativa della precarietà esistenziale.

Ma se la scatola di pomodori viene messa in mostra come significazione estetica, viene il sospetto che, al di là di ciò che crede Warhol, il quale si accontenta del fatto che la scatola di pomodori significhi soltanto se stessa, la pop-art sia l’effetto di una decadenza e povertà storico-culturale che trascende la comprensione dei suoi autori.

Tra le possibili spiegazioni di questa condizione c’è quella che Peter Buerger chiama l’autonomizzazione del significante, cioè si applica un sistema di segni in cui i segni stessi non hanno più il significato. E quindi secondo la linguistica non sarebbero nemmeno significanti, perché il significante è tale soltanto se è portatore di un significato. In tal modo anche il significante non è più tale perché non fa parte di un segno. Questa contraddizione non viene colta o non si vuole cogliere, perché “le categorie di senso diventano problematiche” (Teoria dell’avanguardia, p. 130), e si vive in una condizione non razionale, dove si accetta la scomparsa dei criteri estetici. Questo non si sa se sia da prendere come una scomparsa dell’estetica e quindi dell’arte, oppure una scomparsa della referenzialità, perché tutto è diventato estetico. Una conseguenza è l’impossibilità di avere una realtà, una storia e una filosofia, forse persino una scienza, perché tutto è diventato storytelling, cioè finzione vera o verità finta.

Ritornando ai fondamenti, le avanguardie, per quanto creativamente benemerite, sono la temporanea rivincita estetica di una classe intellettuale a suo tempo considerata non più utile dalla borghesia al potere. Ma che viene di nuovo assoldata, e suo malgrado fagocitata, dalla classe dominante della comunicazione globale.

Questa nuova classe dominante sta dietro l’apparente ideologia dell’anything goes, perché in realtà tutto ciò che va è smistato dalla comunicazione, e la comunicazione è inventata dai possessori dei mezzi di comunicazione. A pensarci bene lo storytelling è una spia che il bisogno e il tentativo di normalizzare le bugie non riesce a passare inosservato.