Performing Shadows: Istante, Arte, Eternità.

 

Emporio Porpora, Performing Shadow, 2011

di Leonardo Terzo
Sulla stessa pagina 44 della Repubblica del 18 agosto 2011 un articolo di Arbasino e un altro di Gianluigi Ricuperati si occupano di come i problemi della transcodificazione da un’arte all’altra o da un mezzo espressivo all’altro aprano inevitabilmente uno scenario di interrogativi sul senso dell’arte di oggi, e dell’arte nel tempo, e dunque un confronto con quella del passato.

Arbasino, ricordando le discussioni con Roberto Longhi, parla di Ekphrasis intesa come capacità di esprimere in parole qualcosa che è rappresentato o presentato dai mezzi di altre arti, come la pittura, l’architettura, la musica. In questo caso la traduzione in parole potrebbe essere una parafrasi, una glossa, un commento o infine una totalità critica, dove tutte queste cose sono convogliate da ultimo in un giudizio di valore.

Ricuperati intervista invece Hans-Ulrich Obrist, condirettore della Serpentine Gallery di Londra. Obrist, critico e allestitore di mostre in tutto il mondo, crede di aver trovato il rimedio per dare un senso al caos o alla multidimensionalità progressiva e regressiva della situazione contemporanea dell’arte e delle arti. Ha riunito tutti i modi di fare critica ed eventi di senso in un grande archivio di interviste, ad artisti, autori, filosofi, scienziati, comunicatori, politici, musicisti e quant’altri. Di tutti coloro cioè che in un certo momento sono capaci di suscitare l’interesse di uno storico dell’arte dell’attualità.

Il rapporto tra i due argomenti sta nel fatto che sono entrambi segni del rimescolamento delle categorie del sapere e del pensare, ma anche del fare, che la modernità, la postmodernità e la globalizazzione hanno realizzato più o meno coscientemente dal Romanticismo in poi.

John Keats nell’”Ode on a Grecian Urn”, 1819, famosa anche perché si conclude con la sentenza (eccessiva?): “Beauty is truth, truth beauty”, la bellezza è verità, la verità bellezza, riflette che l’arte non è realtà, ma solo rappresentazione. Tuttavia proprio per questo è eterna. Mentre le persone vive sono “vere”, ma destinate alla morte, l’arte è finzione, ma è destinata a fissare un attimo di vita nell’eternità. Lo scopo di fondo dell’arte era appunto “eternizzare” cioè rendere concreto, comprensibile e memorabile un modello di cultura e di umanità concentrato in un’immagine, un verso, un suono. La fama è tutto ciò che sopravvive alle anime dell’Ade.

Nel mondo attuale tutti questi concetti sono evaporati nel nulla o sfumati gli uni negli altri, anche perché in primo luogo non si sa più cosa sono la verità, la bellezza, la realtà, l’arte, la vita, l’attimo, l’eternità. Sulla memoria le opinioni oscillano tra quelle che la considerano, non morta, ma irrilevante, perché siamo tutti imbarcati sull’astronave elettronica oltre il tempo, e quelle che sono certe che tutto si conserva nella discarica elettronica, ma temono che sia un male da cui non riusciremo a liberarci.

Nel frattempo Obrist ha trovato, non una soluzione, ma certo un’utile interlocuzione pragmatica. Come critico e curatore sa che è difficile distinguere tra arte, non arte, autore e opere, tra autori e fruitori, tra creazione ed esperienza,  verità e falsità. E allora ha deciso di documentare tutto con testimonianze dirette o indirette, di ogni tipo, trovando nell’intervista il genere comunicativo in cui il massimo numero di categorie della conoscenza possono confluire. Dal fondatore di Wikileaks all’artista dissidente cinese imprigionato, dal laboratorio dei performer  al pensiero anarchico, anche perché le persone stesse non sono più ascrivibili ad un’unica categoria identitaria o professionale. La globalità non riguarda solo l’economia o la ricerca artistica, ma il disciogliersi del confine fra di esse, uno scioglimento dei ghiacci concettuali e delle prassi.

A metà del Novecento le discussioni di Arbasino con Roberto Longhi sulla resa verbale di un quadro di Cezanne riguardavano un’apertura, o un salto in avanti nel buio?  Nella pittura medievale e anche nel Rinascimento quelle che oggi si chiamano forse ancora “arti visive” erano una allegoria abbastanza precisa delle scritture, dei miti classici, oppure del ritrovato neoplatonismo. Il Romanticismo si libera della stretta osservanza alle storie note e apre alla ricerca dell’infinito. La modernità non cerca più l’infinito, ma il senso del presente e del futuro: invece del mito della storia totale cerca l’opera d’arte totale.

Ma qualcuno dice ancora che la pittura si vede con gli occhi, la musica si sente con le orecchie, l’architettura abitando gli edifici. Ma anche che la pubblicità si consuma con gli acquisti, i videogiochi si giocano con la playstation, la musica si agita in discoteca (o si conserva nei musei dei juke-box?).

Per Obrist l’opera si fruisce meglio intervistando l’autore. Perché non il fruitore? Io credo che le installazioni si completino disinstallandole, come dopo la crocifissione c’è la deposizione. Arbasino dice che le installazioni sono facilmente traducibili in parole, basta descrivere ciò che concretamente si espone: “un sacco di carbone certificato autentico; un letto sfatto con sopra tre mutande; …una bicicletta nuova e una rotta…”.

Nel frattempo la performance è stata messa a fuoco meglio come “life experience” e scultura vivente. Dice Obrist: “Santiago Serra ha messo nell’angolo di una camera un veterano di guerra che rimane silenzioso… testimoniando il trauma muto di tutti i conflitti”. Ma c’è qualcuno o un cartello che lo spiega? O i visitatori devono immaginarselo da soli?

Interrogato sul prossimo futuro, Obrist dice: “Sto pensando e lavorando a una mostra che si svolge interamente nella rete.” Ma come? Tanta esperienza di interviste per arrivare a questa banalità?

P.S.
In un trafiletto di cronaca nella stessa pagina: “Crolla il tetto dell’abbazia di Monreale”. Disinstallazione o incuria?