Art-trek 2 (5-8)

 

  1. Dal sacro al mercato

 

Il legame dell’arte col sacro si può interpretare come legame con la fonte dell’ispirazione creativa. Non per nulla le opere poetiche di grande impegno iniziavano con l’invocazione alla musa. Benjamin ipotizzava la sostituzione del legame perso col sacro con un legame nuovo con la politica. In realtà, se questa ricostituzione di un legame con l’altro dall’estetica avveniva, esso si andava attuando sotto forma di legame tra arte e mercato. Ogni poetica porta alla ribalta della storia contemporanea una nuova visione del mondo, ma innanzitutto la propone alle strutture di legittimazione che stanno inevitabilmente nel mercato. Insomma, sacro o politica, o mercato, l’arte, anche quando rivendica la sua autonomia, non è fatta sul vuoto di valori e di intenti vitali, ma si pone sempre un qualche legame (geografico, storico, etnografico) con la comunità in cui si manifesta. L’autonomia e il disinteresse rivendicati sono relativi alla libertà inventiva e alla specificità tecnica dei materiali espressivi, non sono liberazione dall’insieme della cultura, di cui l’arte vuole anzi essere componente di primo piano.

Si dice che l’arte per sua natura non appartiene all’ordine mercantile, ma nulla appartiene “per sua natura” all’ordine mercantile, se non il mercato ed eventualmente la partita doppia e altri criteri di contabilizzazione. Invece tutte le merci appartengono al mercato e dunque qualsiasi cosa venga comprata diventa merce, anche l’arte, non per sua natura ovviamente, ma per la sua circolazione. Persino l’uomo è una merce in senso proprio e totale in un regime di schiavismo.

 

Si può sostenere che l’artista non opera per il mercato, ma si potrebbe egualmente sostenere che anche il produttore di acqua minerale opera per dissetare chi ha sete e non per il mercato. Poi però sia il produttore di acqua minerale sia l’artista vendono i loro prodotti, che diventano così merci, senza che queste ultime perdano le loro finalità intrinseche di dissetare e di offrire un senso estetico al consumo di chi ne ha bisogno.

 

Altro modo di collocarsi nell’alterità è, nell’arte del 900, lo svuotamento dei contenuti figurativi che porta all’astrattismo, visto come sottrazione, a livello iconologico, del determinato, ma anche dell’utilitaristico. Il problema è che, comunque si operi tale sottrazione, ciò che resta non riesce a sottrarsi al mercato, e dunque riprende un’identità e una determinazione molto pratica e molto utile come merce.

 

 

  1. Arte, antropologia, evoluzionismo

 

In contrapposizione alla concezione dell’arte come una produzione di merci culturali, rese merci, come si è visto, nonostante la loro natura culturale, per il fatto che vengono fruite, se non consumate, in un regime di economia di mercato, senza per questo sottrarre ad esse la loro utilità propria, così come l’acqua minerale è una merce, ma non per questo perde la sua utilità di bevanda atta a dissetare, (l’aspetto mercantile riguarda la distribuzione e la circolazione della fruizione artistica, da separare quindi dalla sua funzione culturale; anche se ovviamente la distribuzione può influire sul contenuto culturale stesso) c’è la tendenza a paragonare l’arte occidentale ad analoghe produzioni presso civiltà dove il mercato non esiste o non funziona con le medesime modalità, e ci si pone la domanda su come si debbano interpretare quelle diverse produzioni presumibilmente artistiche.

 

Tuttavia non si capisce perché questo paragone, pur di qualche utilità per la scienza antropologica, debba considerarsi essenziale per capire l’arte occidentale, se non per dire ciò che appare in tutta evidenza, e cioè che la differenza rende quasi inservibile questo tipo di paragoni per la comprensione delle varie specifiche estetiche, ammesso che siano già di per sé definibili tutte in questo modo, il che viene appunto messo in dubbio. E quando si sia consapevoli che la nostra estetica non è universale, che ne ricaviamo? L’errore in cui si rischia di finire è di snaturare il significato e la funzione evidente dell’arte, per rincorrere una nozione, più generica che generale, che esce dall’estetica stessa.

 

Vedi per esempio la versione “evoluzionistica” del significato dell’arte, dissolto in un’attività destinata ad un generico processo di adattamento all’ambiente per facilitare l’evoluzione. È il solito criterio di risalita verso contesti sempre più ampi e comprensivi che comprendono l’insieme delle manifestazioni della vita, traducendole in un comune denominatore biofisico, che non ha interesse per le proprietà dei sottoinsiemi dei fenomeni, ma solo per la loro finalità biologica.

 

Anche inseguire la fantasticheria di uno scambio simbolico (non di beni simbolici) sottratto al mercato, sul modello di una economia del dono, non ha senso, appunto perché non siamo in un’economia del dono. Farne l’aspirazione di una poetica o di un’estetica diventa qualcosa che vive tra parentesi come “stile” o messaggio dell’opera, dopo di che rientra nel mercato quando il tutto viene venduto come merce inevitabilmente. Oppure si realizza come hobby del dilettante che regala le sue opere finché, nel momento in cui diventano appetibili per il loro valore, il mercato se ne impadronisce.

 

 

  1. Morte dell’arte e alterità

 

La cosiddetta “morte dell’arte” si manifesta quindi o nell’aspirazione ad una funzione sovversiva (utopica o regressiva) delle avanguardie, o nella rinnovata incorporazione nella vita quotidiana delle arti applicate (dall’architettura alla moda, dalla pornografia ai videogiochi), con gli ambiti specifici del design industriale e della pubblicità, per cui si parla di esteticizzazione della vita.

 

La tendenza dell’arte a definirsi in primo luogo come alterità ha altre versioni: una è quella della dialettica negativa, per cui essa rappresenta o almeno allude ad un mondo diverso e superiore dove il negativo è abolito e le contraddizioni e i conflitti superati. Per Steve Connor (vedi: “What if there were no such thing as the aesthetic?”, http://www.bbk.ac.uk/english/skc/aes/ ), l’arte è una simil religione che fa sperare in un paradiso futuro. Per Bourdieu sarebbe invece il mezzo con cui la stratificazione sociale trova modo di marcarsi, distinguendo le classi alte, capaci di fruire dell’arte, e le classi inferiori, incapaci di farlo.

 

 

  1. Arte e ideologia

 

Quanto al rapporto tra arte e ideologia di classe: è vero che le ideologie di classe elaborano le proprie classificazioni estetiche con i valori, i contenuti e le tecniche ad esse proprie, e tali classificazioni sono atte a celebrare i propri punti di vista sul mondo, ma anche qui, sia le tecniche, sia i contenuti vanno interpretati con il punto di vista relativo e disinteressato di chi è consapevole di questa posizione. Il fatto che il romanzo realistico presenti come giusti i valori borghesi non mi impedisce di apprezzarlo, anche se non condivido i valori borghesi, perché ciò che posso comunque ammirare è appunto la funzionalità del rapporto fra mezzi e fini, i quali fini, si sa, sono estrinseci al giudizio estetico e funzionale sull’arte.

 

Il fine dei mezzi espressivi è l’espressione, non la realizzazione pratica di ciò che si è espresso. Certo è difficile, come nel caso che citeremo più avanti della ghigliottina, prescindere da valori particolarmente odiosi come il razzismo o il sadismo, o ammirare la raffinatezza della tortura ben eseguita, ma in questi casi dobbiamo essere consapevoli che stiamo discriminando i valori etici e politici e non i valori estetici. Deve considerarsi ovvio che ogni arte ha un contenuto ideologico che è la materia con cui lavora, e che in ultima analisi viene anche trasformata alla fine in opera d’arte. Ovvero in qualcosa di diverso dall’ideologia in sé che era prima dell’elaborazione artistica, così come un edificio è una cosa diversa dai mattoni e dagli altri materiali con cui è stato costruito.

 

Anche l’arte, vista come coscienza infelice o dialettica negativa, comporta un uso ideologico di essa, che posso condividere o no. Ma ci sono appunto opere progressiste e opere conservatrici quanto a contenuto veicolato, anche nella forma, come il romanzo rosa o il giallo. Per esempio come giudicare il giallo che, con il suo eccesso di razionalismo etico, ci fa credere che i misteri siano risolvibili e i colpevoli sempre puniti? Possiamo dire che è una mistificazione consolatoria, oppure che è un esempio ideale di giustizia che si prefigura e si auspica ci sia anche nella realtà. Insomma ogni arte può essere l’oppio dei popoli sostitutivo della religione, consolazione alternativa alla verità, alla rivoluzione e alla vita, oppure modello ideale, incitamento ad un mondo migliore, operante come il famoso “principio speranza” insito nell’utopia secondo Bloch.