Funzione salvifica e funzione mondana della letteratura.

Secondo Raymond Williams (Marxism and Literature, 1977) la nascita dell’estetica sarebbe stato un tentativo di preservare un “interesse disinteressato” per la bellezza formale e per l’autenticità emotiva, nel momento in cui il mercato stava trasformando ogni aspetto della vita in merce. Questo tentativo sarebbe poi fallito e anche l’apprezzamento dell’arte e della letteratura sarebbe diventato uno strumento di distinzione di classe; per usare un termine di Pierre Bourdieu: un accumulo di capitale culturale. Si prospettano e si distinguono così nell’uso della letteratura due indirizzi, egualmente strumentali, uno nobile e disinteressato e uno classista e mercificato. Nonostante l’apparente rozzezza della distinzione, è tuttavia necessario convincersi che la letteratura serve, e che nella sua strumentalità sta la sua essenza di sapere propriamente umano, come saper formare, saper essere, saper dire, saper esibire, saper immaginare.

Occorre sottolineare che, di per sé, questa strumentalità è innocente, laddove il fine dei suoi usi può essere invece commendevole o criticabile ma per qualcuno è sempre mistificazione, per altri è sempre liberazione e sublimazione. La libertà dell’artista è dunque in bilico tra due nature. Tra l’essere un dato ontologico dell’arte stessa come libera creatività inventiva, anche quando è al servizio del potere, religioso (Michelangelo), borghese (Henry James), stalinista (Sciostakovic); e l’essere una pratica sociale, che va giudicata di volta in volta secondo i compiti che accetta di svolgere: nel Medioevo,  per la Controriforma, nella Modernità, per l’Industrializzazione, nella Postmodernità, per la Globalizzazione.

Alla domanda sulla funzione sociale del linguaggio artistico abbiamo dato una doppia risposta, ovvero una risposta articolata in due fasi: 1. la funzione estetica del linguaggio serve a farci piacere il messaggio, e quindi a dare piacere; ma: 2. serve anche ad usare il piacere prodotto dal messaggio, per fini estrinseci ad esso, ovvero per orientare l’esistenza sociale della comunità in una direzione qualsiasi. Queste due fasi valgono per tutte le scelte e tutti i comportamenti umani, per cui per esempio il gioco del calcio ha in primo luogo la capacità di piacere a chi lo gioca e a chi lo osserva come spettatore, ma in secondo luogo, come pratica sociale, può essere usato sia come “oppio dei popoli”, per distogliere la coscienza delle masse da una realtà di sfruttamento, sia per rinsaldare simbolicamente il senso di unità e solidarietà, sublimando in termini di lealtà ludica e rispetto dell’avversario la conflittualità intrinseca alla coesistenza di identità e alterità.

Il sogno ricorrente del teorico è però di trovare la quadratura del cerchio che unifichi queste due fasi, scoprendo e identificando una funzione sociale che sia propria di quella estetica. Così i teorici influenzati dalle poetiche moderniste tenderanno a trovare nell’arte il fine di prospettare sempre nuovi mondi possibili, di simulare prove di adattamento al nuovo, di costruire modelli impensati di universo. Estrema in questo senso è l’ipotesi delle filosofie della differenza, per cui la funzione dell’arte, come della filosofia stessa peraltro, è appunto di alludere alla differenza indicibile e indecidibile. Oppure l’arte distillerebbe in forma pura e astratta, ma condensata in oggetti di materia significante, la pulsione vitale alla conoscenza ed all’esplorazione del mondo. Similmente, l’evoluzionismo culturale contemporaneo vede la bellezza come un segnale del “valore adattivo” (sic), cioè: “habitat sicuri, ricchi di cibo, esplorabili e conoscibili, e partner sessuali e figli sani e fertili”, che gli esseri viventi percepirebbero negli oggetti più o meno belli (Steven Pinker, Come funziona la mente, 1997, Milano, Mondadori, 2002, p.563). In una visione più tradizionalmente stoica, l’arte ipotizzerebbe simulazioni di semplice adattamento alla condizione umana e ai suoi lutti, senza subirne realmente le conseguenze, attraverso l’esperienza surrogatoria della catarsi. Ancor più antica è l’ipotetica funzione, nelle culture orali, della poesia per tramandare mnemonicamente il patrimonio culturale della comunità. In questa prospettiva, nelle fasi di stabilità, tutte le comunità utilizzano gli elementi della loro cultura, e quindi anche le arti, per confermare e rafforzare i loro postulati etici e politici, mentre in fase di rapida evoluzione diventano più o meno “moderniste” e volte al cambiamento.

Una concezione pseudo-sacrale della letteratura è la forma attuale di uno dei due indirizzi che la letteratura ha imboccato, sin dal Romanticismo (Blake, Emerson, Baudelaire, Nietzsche, Mallarmé, Proust), per riservarsi un compito più alto rispetto a quello civile e poi nazionale che la borghesia le aveva assegnato per portare a termine la propria rivoluzione culturale. È un indirizzo in cui confluiscono varie esigenze contingenti: l’esigenza di pervenire ad un’autocoscienza superiore, o di veicolare fermenti dell’utopismo endemico ricorrente, o di esercitare comunque una missione salvifica, avvalendosi proprio dello spazio che la separatezza letteraria occupa rispetto alla realtà. Si può obiettare che questa scelta ottiene l’effetto contrario, in quanto sottolinea la distanza tra letteratura ed esperienza. Resta il fatto che, oltre il consumo, la letteratura contemporanea, come “solenne esercizio dello spirito”, non sembra avere più una funzione. Ciò si verifica non per un suo cattivo uso da parte dei lettori, quanto per la natura anacronistica dei suoi mezzi “alfabetici”. La sua capacità di comprendere ed educare le nuove generazioni nella comunità mondiale globalizzata, a mio parere, equivale alla capacità della lingua latina di interpretare le esigenze delle popolazioni che assediavano l’Impero Romano nell’imminenza delle invasioni.

LEONARDO TERZO

 

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