Postmodernità e Zeitgeist 10

Bambini a Bombay 4Bambini a Bombay

Poiché, come si è detto, la dimensione estetica non è la realtà, ma prende posizione nei confronti della realtà, politicamente tale posizione può essere:

  1. reazionaria come elogio dello status quo;
  2. aperta e progressista, come spinta verso un’epistemologia esplorativa;
  3. astensionista e distrattiva, e come tale implicitamente alleata ai poteri dominanti.

Il postmodernismo è incontrovertibilmente uno svaporamento dell’impegno e un distacco della sovrastruttura culturale dalla struttura politica ed economica.

Adorno e Horkheimer, infastiditi e atterriti dalla deriva americana sperimentata durante l’esilio, fanno risalire l’orrore dei campi di sterminio direttamente alle potenzialità organizzatrici del capitalismo, effetto del razionalismo illuminista. Così la morte della poesia, dichiarata da Adorno dopo Auschwitz, è un addebito dei mali del secolo alla colpevole e spensierata autonomia dell’estetica.

All’opposto, parallelamente, questo tipo di addebiti viene fatto da chi sostiene l’impegno, per lo meno epistemologico, del modernismo avanguardista nei confronti del successivo disimpegno postmoderno, complice il nichilismo post-strutturalista di Derrida e Foucault, che, con una totale giravolta pragmatica, getta a mare il bambino del progresso con l’acqua sporca dell’inevitabile parzialità logocentrista.

Da un lato l’impegno troppo diretto dell’estetica verso la politica è visto come sterile appiattimento sulla realtà. Dall’altro è la realtà stessa che viene svuotata di senso assumendo in sé l’autonomia di ogni presunta apertura all’ignoto. Si ripete periodicamente un aggiornamento della querelle des anciens et des modernes.

L’altro aspetto è l’estroversione delle rivolte estetiche e intellettuali nelle manifestazioni di strada, che implicano due mutamenti: la visibilità e concretezza degli scontri e la relativa perdita di profondità e acutezza politica. Il modernismo elitario diventa popolare prestando il fianco alla commistione con la cultura di massa, il cui compito è di smussare la critica politica in cambio di un diffuso sbocco e sfogo sensitivo.

Ma se la lotta diventa teatro (c’è infatti effettivamente anche “Il teatro di strada”), rappresentazione della cosiddetta contro-cultura, tale contro-cultura trovava però una dimensione di efficace concretezza nelle manifestazioni contro la guerra del Vietnam (1955-1975).

Si può scandire questo divenire in tre fasi:

  1. Il modernismo originario, strettamente intellettuale e formale, scaturito dall’impossibilità degli artisti di essere integrati negli effetti sociali di una rivoluzione borghese che ha già conquistato il potere e non ha più bisogno di loro; la ricerca modernista di un’uscita non razionale dall’uniformità borghese si può criticare perché irrazionale appunto, oppure accettare come apertura che tiene in vita le possibili alternative, per quanto non completate.
  2. Il ribellismo giovanilista, che adotta la predisposizione avanguardista e critica dell’estetica e la manifesta in una teatralità efficace, ma relativamente confusa tra pacifismo, pop, rock e dimensione psichedelica;
  3. La fase più superficiale che accetta e inalbera la nuova dicitura di postmodernismo, che sta per “nuovo” edonismo, e sarà spettatrice inane delle vere trasformazioni tecnico-scientifiche della comunicazione. La spinta oligarchica verso la mondializzazione, al riparo dalle critiche che il postmodernismo non sa argomentare, fa ormai a meno di ogni facciata estetica, ricacciando l’estetica in un’autonomia punitiva, non scelta per elaborare nuove idee, ma per non disturbare il manovratore.

Di fatto, consapevolmente o no, la dimensione politico-culturale è superata dai termini delle tecnologie, in cui i giovani sono protagonisti, a metà strada tra il fascino e il miraggio del potere ottenuto con le start-up e un’innocenza a-politica. Un’innocenza a-politica lontana dalla possibilità di capire gli effetti disastrosi di un mondo dove la parte in aggiornamento perpetuo si spinge, anche senza averne coscienza, verso il post-economico, il post-umano, e il post-tutto, e la parte miseranda del pianeta è abbandonata alla fame e alla morte.

Così, in un certo senso, la fine del postmodernismo è un’esplosione silenziosa, che sparge le sue conseguenze ovunque e rivela finalmente cosa quel termine nascondeva, più o meno all’insaputa di tutti.