Sull’ontologia della finzione.

Leonardo Terzo, Le porte ci guardano, 2009

Il rapporto della letteratura col mondo (le parole e le cose) si può far rientrare in una sperimentazione delle capacità di pertinentizzazione che il linguaggio opera semioticamente su di esso. Ovviamente ciò avviene in primo luogo usando il linguaggio referenziale della scienza e della filosofia (Che diavolo è il DNA? E perché ce l’ha me?), ma anche attraverso una sperimentazione propriamente semiotica, mettendo in primo piano la retoricità della funzione estetica.

Si può configurare quindi un’invenzione contenutistica, come per esempio le nuove teorie scientifiche e filosofiche che scoprono o interpretano la realtà, o ipotizzano l’utopia, oppure un’invenzione semiotica propriamente estetica: per esempio la connotazione romantica dell’infinito, la ricerca evocativa del simbolismo, la funzionalità associativa e identificativa della metafora, perfino le sfrangiature semantiche ai margini categoriali dell’allegoria. Oppure ancora tra le due, l’invenzione o percezione di “nuove micro-forme del contenuto”, che sono valori formali e contenutistici insieme (vedi Saggi italiani su Elizabeth Bowen, a cura di Barbara Berri, Arcipelago Editore, Milano, 2010, p. 15).

La distanza dalla referenzialità può essere intesa come uso assolutamente non transitivo del linguaggio, che nell’estetica rimarrebbe isolato dalla comunicazione e privo di significato pragmatico. Oppure come un regime diverso di significato, che per esempio viene rivalutato dall’ermeneutica della differenza. Tutto ciò era già implicito nella nozione di letteratura come ricerca di mondi possibili, oppure come fascinazione retorica al servizio dei contenuti politici: una sorta di pubblicità che esibisce il messaggio come un massaggio retorico sulla sfera sensibile (McLuhan), o come un grido di battaglia, che è il significato originario di “slogan”. Il che era criticato da Platone che lo riteneva tossico, e vantato invece dai formalisti russi che lo ritenevano rinvigorente.

Ma basta forse che i nuovi contenuti stazionino nell’immaginazione con un effetto consolatorio o stimolante? Mostrare un mondo qualsiasi nella letteratura serve a qualcosa praticamente? Insomma: basta cambiare stile per cambiare il mondo? L’uso differente del linguaggio nello stile di ogni testo è una causa o un effetto? È un suggerimento di alternative come “narrazione” contro “descrizione”? E questi usi come fanno poi a qualificarsi come reazionari o progressisti? Ogni modernismo e ogni differenziazione estetica del linguaggio è stata vista sia come isolamento della parola e quindi sottrazione di essa alle forze democratiche nel dibattito politico, oppure come suggestione di alterità capace di covare la rivoluzione.

Per Virginia Woolf per esempio era piuttosto una rivoluzione di tipo cognitivo nella rappresentazione dei meccanismi della coscienza. Tendenzialmente però la suggestione attiene alla fase distruttiva delle gerarchie letterarie esistenti: il flusso di coscienza abolisce il narratore, soprattutto onnisciente; il godimento della testualità di Barthes abolisce i generi e le convenzioni che definiscono “l’opera”. Forse ciò che resta nell’uso, sia reazionario (secondo Lukàcs), sia progressista (secondo le avanguardie), è il voler vedere il mutamento di tecnica come un sintomo, o un segnale, che poi ognuno interpreta secondo convenienza e circostanza.

La differenza tra narrare e descrivere, da Aristotele a Lukàcs, sta nel privilegiare l’azione, mossa da un intento razionale (narrazione), contro la vita empirica, passiva e senza un significato preciso (descrizione). Ma la “mera descrizione” può essere vista anche come abolizione di una gerarchia sociale e mondana non più valida, ora sostituita da una democrazia estetica che cerca solo l’originalità dello stile. E l’estetica, cioè la parola che ha superato le gerarchie esistenti nel mondo reale (le cose), dove prende la sua legittimazione? Sempre dal basso, dai giovani e dal nuovo? Sembra di no: per esempio il gotico irrazionalista e autenticamente reazionario di The Castle of Otranto, col suo successo, dimostra che nuovi stili e gerarchie possono venire da ogni versante politico.

Anche la fascinazione dell’oggetto etnografico si presta all’avanguardia, purché nobilitato da una funzione di testimonianza antropologico-culturale (inizio della Pelle di zigrino di Balzac, e di The Little Girls, di Bowen). Ciò significa che l’arte riconosce che non vi sono cose privilegiate per la rappresentazione estetica, ma nello stesso tempo sa che le sue scelte forse non saranno significative. È di nuovo l’incertezza sulla sua funzione rispetto alle cose: la loro esteticizzazione le privilegia, ma l’aura di un valore intrinseco delle cose scelte è sfumata. Dal momento che l’arte non ha più un valore derivante dalle gerarchie sociali, perché siamo nel mondo della democrazia e della sincronia, essa può scegliersi i suoi argomenti, ma percepisce l’irrilevanza che deriva dalla sua autonomia.

Allora occorrerà fondare una nuova gerarchia, magari solo estetica. Ma dove trovare i fondamenti? L’arte contemporanea è infatti del tutto svincolata da criteri che non siano la precarietà e gratuità della scelta, perché tale è la mancanza di radicamento dell’arte nella società. E forse questo è appunto il senso del sintomo, cioè che non l’arte, ma la vita, ha perso un senso definito. Poi vi è anche il rimpianto delle culture orali, quando la poesia e l’etnografia coincidevano, come coincidevano ragione, mito e storia, per realizzare una sintesi comunitaria, o psiche collettiva indifferenziata, invece della personalità individualizzata dall’analisi filosofica.

L’irrilevanza pratica della letteratura comincia dalla sua autonomia, che sposta i suoi interessi sul piano estetico, con un suo fine specifico: il piacere di capire l’effetto di una forma (dell’espressione e del contenuto). In linea secondaria la letteratura può ancora avere effetti pratici e quindi politici, ma solo in subordine, perché l’impegno etico-politico si ritiene assunto validamante solo attraverso il piacere del testo. Se una poesia etica e civile è brutta, il suo impegno va a vuoto, come un colpo a salve, perché manca la pallottola della bellezza. Solo tale pallottola colpisce anche il bersaglio politico.

Il linguaggio dà forma al mondo, ma certo il mondo va anche per conto suo, indipendentemente dal linguaggio. Qui è la radice di tutte le ambiguità sulla funzione del pensiero, dell’arte e della letteratura. L’economia, la tecnica e la storia si muovono, la cultura segue, perciò la cultura è sempre in ritardo, cioè dà una forma reazionaria, o per lo meno sorpassata, alla realtà, mentre le trasformazioni materiali le danno una forma nuova. L’Angelus Novus non vale solo come figura della storiografia, ma di ogni conoscenza. Le avanguardie sono sussulti di novità non rispetto al mondo, ma rispetto alle forme culturali superate. Oggi ciò appare forse più chiaro perché l’innovazione tecnologica ci fa sentire come corridori ripetutamente doppiati nel circuito della realtà.

La rappresentazione del mondo basso, non aristocratico, e cioè il realismo borghese, si instaura nel ‘700, ma la borghesia inizia la sua ascesa in termini di modi di produzione due secoli prima. La letteratura cambia quando cambiano i lettori? Chi legge il romanzo picaresco? Se il primato è dell’azione, sono gli eroi borghesi che agiscono, come Crusoe e Moll Flanders, mentre Don Chisciotte e Don Giovanni sono ridicolizzati o puniti, per aver agito su parametri non più validi il primo, o perché traditori (a metà almeno) del loro ceto il secondo. Anche Julien Sorel fallisce perché nel 1830 sia il rosso sia il nero non portano da nessuna parte, e sono arroccati sui rimasugli del potere. Il Padrone delle ferriere deve aspettare il 1882 per farsi leggere come nuovo protagonista vincente. Ad ogni modo il razionalismo è politicamente borghese, la metafisica e il misticismo invece sono aristocratici. Perciò i cristiani attuali sono di necessità mercanti nel tempio.

Quando si arriva alla fine del realismo e all’inizio del modernismo, l’uomo d’azione nel romanzo è quello che cerca di capire. Cerca di capire che il modo di produzione, ovvero ciò che trasforma la realtà, sta iniziando una nuova fase, dove la conoscenza tecnico-scientifica sarà il nuovo motore della Storia. L’azione si ferma apparentemente, perché si trasforma in riflessione. Il mondo da percorrere e ri-formare è la coscienza, è la cultura stessa, ovvero lo strumento di direzione delle masse attraverso la significazione e quindi la comunicazione.

Le parole e le cose cominciano a confondersi tra loro, in primo luogo nell’intuizione vitalistica delle classi dominanti, se non altro in termini di pubblicità. Lo strutturalismo è la fase più consapevole di questa riflessione e perciò evidenzia e istituzionalizza le funzioni linguistiche, e in particolare l’autoriflessività del linguaggio estetico. L’arte si trasforma appunto in pubblicità e spettacolo. L’abbassamento demotico dello stile deve scendere fino all’uomo massa, votato o indotto alla distrazione.

Occorre perciò una re-interpretazione storico-politica delle avanguardie come scoperta del prevalere della cultura come mezzo di produzione, perché l’industrializzazione, che instaura l’economia dell’offerta, ha creato nuovi fini sociali, che sono la distrazione consumistica e spettacolare delle masse. Tale distrazione si ottiene con un eccesso di significante sul significato, per quel che riguarda le arti, e un significato (messaggio) sovra-imposto all’uso, per gli oggetti etnografici. Si impone così un nuovo sentire, un nuovo mito che rimescola, come nelle culture orali, finzione e Storia. Questa era anche l’aspirazione originaria del Romanticismo, che voleva letteratura e mito come antidoti all’industrializzazione (Leo Marx, The Machine in the Garden, 1964).

La post-modernità riprende questa aspirazione, deviandola consapevolmente in superamento delle prime fasi dell’industrializzazione verso la comunicazione. Abbiamo così la fine della distinzione delle gerarchie fra le funzioni linguistiche: la comunicazione politica è autoriflessiva e ambigua, la comunicazione culturale delle ex arti è deviante e distraente, fino alla vita di puri riflessi condizionati dei videogiochi.

Leonardo Terzo

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